Corrado Gavinelli

Nono Atto contro il Virus Corona nella sua Terza Fase di Ritorno, più grave, della Pandemia

Civitati florentissimae minus obfuit pestilentia, quam negligentia” (“Alla città fiorentissima la pestilenza fu di dànno minore della negligenza”, Cardinale Geronimo Gastaldi, Trattato politico-legale sulla prevenzione e debellamento della peste, 1684 [frase riferita alla epidemia romana del 1656])

Con la ulteriore esasperazione della diffusione non controllata (e debitamente contrastabile con la distribuzione dei vaccini di salutare rimedio, che si è cominciato a somministrare) del Virus Corona di questi ultimi mesi, e dopo la triste – ma giusta – abolizione di ogni festa carnevalesca [Figura 1], ho creduto opportuno attestare

Figura 1 – Corrado Gavinelli, Il Carnevale del Covid, 2021

ancòra, di nuovo e più fortemente, il concetto di protezione dal morbo soprattutto tramite l’elemento maggiormente significativo dell’apparato salutare, costituito dalla Mascherina: che nel periodo più storicamente noto della espansione del contagio pestilenziale durante il Seicento, ha ricevuto la propria configurazione eclatante nella Maschera corvina del Dottore della Peste [Figura 2].

Figura 2 – Paul Fürst, Il Dottor Schnabel di Roma, 1656

Che significativamente un anonimo illustratore odierno (della Compagnia Grafica Freepik di Màlaga in Spagna) ha saputo nel 2019 cògliere nella sua entità di corrispondenza iconologica verso una paritetica condizione medica similare, tra attualità e storia, in un efficace confronto di due dottori con le loro tipiche tute terapeutiche: quella contemporanea indossata dal personale sanitario per il Covid, in un apparato complesso e inusuale ma ormai comune, e l’altro più stravagante scafandro seicentesco con il famoso e aggressivo becco prominente [Figura 3]. Entrambe strumenti di una medesima funzione salutare, che ha sostenuto il provvidenziale utilizzo di scopo globale per la salvezza della umanità.

Figura 3 – Autore Anonimo (della Compagnia Grafica Freepik di Màlaga), Dottore della Peste Medico Moderno, 2019

Si trattava, per il Vestito della Peste del Seicento, di una apparecchiatura tecnica rapidamente diffusa tra i medici dell’epoca, e divenuta emblematica e di particolare considerazione, anche iconografica, per il suo curioso ed inconsueto aspetto, e perfino a causa del macabro senso di repulsione e paura che la sua forma, insieme a tutto il conseguente abbigliamento indossato dai dottori nella espletazione del loro còmpito (e dovere) di curatori e guaritori, provocava alla vista dei pazienti e delle persone in genere.

E per quanto tale espediente di attrezzamento sanitario fosse funzionalmente stato realizzato proprio per una più sicura protezione dal contagio, alla fine esso passò, a causa del suo inquietante apparato sostanzialmente mostruoso, per un abbigliamento di terrore e di presagio mortale.

La sua storia che espongo brevemente di sèguito, insieme ad alcune sue corrispondenze culturali e antropologiche che la riguardano, ne porge una sintetica analisi epocale ed interpretativa di interessante conclusione (il cui completo sviluppo più ampio e rifinito rimando ad un prossimo mio saggio congruente).

MASCHERE PER NASCONDERE E PER RICONOSCERE, E PER DICHIARARE (INFORMARE, AVVERTIRE, E CURARE)

La seicentesca Maschera del Dottore della Peste, nonostante la sua impressionante similarità con gli oggetti di camuffamento usati nei carnevali, e soprattutto in quello famosissimo di Venezia, non è un apparato appartenente a quel genere di abbigliamento festaiolo e di divertimento sociale, bensì – al contrario – venne adottata come mascheratura non medica all’inizio del Settecento quando la peste venne debellata, e la immagine di quel vestiario sanitario scomparve e finì per confluire, come elemento caratteristico pari ad altri, negli eventi mascherati di genere pubblico-privato.

Ma quella maschera neppure si può considerare, alla maniera di altri mezzi di nascondimento storici, un elemento di occultamento voluto e totale della personalità dell’utente, come nelle convenzioni sociali lo è stato da secoli e tuttora lo è in occasione di feste carnevalesche, nelle apparizioni in pubblico da mantenere discrete, o addirittura per l’accorgimento di celare le identità da parte di individui scomodi, esclusi dal potere dominante oppure banditi dalla legalità (di cui esemplare è la leggendaria figura di di Zorro). E nemmeno, questo sistema di occultamento mascherato, si può ritenere un espediente di riconoscimento identificativo diretto, secondo quanto talvolta è avvenuto in certe circostanze particolari, quali sono state i calchi per maschere funerarie di defunti importanti da tramandare nel ricordo fisico alla storia.

La seicentesca Maschera della Peste era un mezzo efficace di informazione visiva nei confronti di una situazione particolare in atto, o di un evento esecutivo che stava compiendosi. Il medico che la indossava non voleva celare la sua identità, e neppure nascondersi di fronte ad una situazione contingente: all’opposto, egli intendeva avvisare con quella figura preoccupante la sua presenza di curatore a riguardo di una nota, e pericolosa, malattia morbosa, e contemporaneamente voleva dichiarare il senso specifico del suo operato sanitario in mezzo alla gente, ed a tutti gli individui.

Tanto è vero che la sua effigie (al tempo della peste marsigliese del 1720-22, diffusasi anche in buona parte della Provenza) venne utilizzata per segnalare la presenza della malattia su speciali steli lapidee marcanti il perimetro di protezione dal contagio determinato da un apposito muro di pietre eretto per non essere varcato e starne lontani [Figura 4].

Figura 4 – Un cippo lapideo con incisa la figura conosciuta del Medico della Peste, eretto in Francia a Cabrières presso Avignone,  per segnalare il vicino Muro di confinamento dalla pandemia

LA PRIMA MASCHERA COL BECCO ADUNCO

E’ nel 1656, e a Roma, che la prima Maschera del Dottore della Peste fa la sua apparizione, almeno nella propria rappresentazione iconografica tipica, come elemento caratterizzante la epidemia pestifera, scoppiata nella capitale del Lazio. Ed è opera convenzionalmente attribuita all’incisore tedesco Paul Fürst di Norimberga; che quell’anno fatale pubblicò una stampa, inizialmente in bianco-nero e dopo a colori [Figure 5 e 2], intitolata Il Dottor Schnabel di Roma (di cui è da notare che l’appellativo del medico non è un effettivo cognome, bensì l’epiteto del suo reale significato, che corrisponde in italiano a Becco!: quel particolare suo elemento sporgente portato sul volto), e mostrante la ormai famosa figura del Medico della Peste con lungo abito nero, cappello piatto altrettanto scuro e pantaloni chiusi alle caviglie, mani coperte di guanti, e la stravagante maschera caratteristica – occhialuta – sulla faccia, con un grande becco adunco prominente, e conclusivamente con un bastone di legno in mano.

Figura 5 – Paul Fürst, Il Dottor Becco di Roma, 1656

Questa immagine tuttavia è stata ripresa da una altra raffigurazione coeva, ed appena precedente (meno nota e scarsamente citata dagli storici e dai critici perché più elementare graficamente, e didascalicamente non polemica come quella fürstiana) [Figura 6], realizzata dall’incisore anche egli tedesco Gerhart Altzenbach di Colonia, importante editore di opere d’arte su rame che si faceva chiamare addirittura il “santo stampatore”.

Figura 6 – Gerhart Altzenbach, Abbigliamento in mezzo alla Morte, 1656

In questo suo disegno l’artista si occupa di diffondere il nuovo aspetto del medico della peste debitamente attrezzato con il proprio apparato protettivo, in una maniera realistica e descrittiva (anche figurativamente, poiché il bastone da dottore è una semplice verga di pura funzione distanziatrice dei malati, o di cautelativo contatto indiretto nei confronti degli oggetti contaminati dei pazienti da verificare in posizione discosta.

Ed il commento didascalico del suo testo riporta soltanto l’oggettivo riferimento al còmpito sanitario di soccorso che i dottori prestavano ai malati: “Come si vede nella immagine / A Roma i medici compaiono / Quando sono chiamati presso i loro pazienti / Nei luoghi colpiti dalla peste / I loro cappelli e mantelli, di foggia nuova / Sono in tela cerata nera / Le loro maschere hanno lenti di vetro / I loro becchi sono imbottiti di antidoti / L’aria malsana non può far loro alcun male / Né li mette in allarme / Il bastone nella mano serve a mostrare / La nobiltà del loro mestiere, ovunque essi vadano”.

Invece la incisione del Fürst è una sorta di risposta scettica, con forte inflessione satirica, alla descrizione altzenbachiana precedente: “Credimi, è soltanto una favola / Ciò che viene scritto del Dottor Becco / Che invece fugge dal contagio / E carpisce i soldi ai pazienti / Cercando cadaveri per guadagnarsi da vivere / Proprio come il corvo su un mucchio di letame / E credimi, non distogliere lo sguardo, Roma / – Chi non sarebbe molto spaventato / Davanti al suo piccolo bastone / Con cui intende di parlare come se fosse muto / E indica la sua decisione di morte / Così tanti ritengono di essere stati toccati / Da un diavolaccio nero / Il cui inferno si rivela una capace borsa / E le anime che prende sono d’oro”.

Una versione decisamente trasformata, ed anche ampliata, di cui mi permetto di produrre una mia traduzione più corrispondente agli originari versi latino-tedeschi, con la loro effettiva trasposizione in rime baciate quali sono state originariamente scritte: “Come si vede in questa illustrazione / A Roma i medici han fatto apparizione / Quando dai lor pazienti son chiamati / Nei luoghi dalla peste contagiati / Cappelli o manti, di nuova abbigliatura / fatta di tela in cera, nera o scura / Cappucci con occhiali disegnati / E becchi con antidoti infilati / Che l’aria impura non possa danneggiare / O al dottore allarme procurare / E col bastone in mano ben mostrato / di un nobile mestiere ovunque dato”.

Ma oltre alla sua divergenza didascalica, la stampa del Fürst contiene anche alcune aggiunte figurativamente devianti, di altrettanto significato eccessivamente caricato, tra cui, principalmente, le unghie rapaci dei guanti, ed il bastone ornato in cima da una clessidra con ali di pipistrello, esplicito elemento di ammonizione mortifera: tutti elementi indicatori di un mònito macabro, ulteriormente accentuato dalla intrusione figurativa – inesistente prima – sullo sfondo della immagine, di un minaccioso medico mascherato da cui tutti scappano, accanto ad una città abbandonata caduta in rovina [Figure 7 e 8].

Figure 7 e 8 – Dettaglio nella stampa del Fürst riferito al bastone sanitario usato dal Medico della Peste come è stato rappresentato, con l’àpice decorato mortuariamente da una clessidra dotata di ali di pipistrello [sopra]. E il particolare della medesima incisione fürstiana [sotto] raffigurante un gruppo di persone fuggenti davanti al costume spaventante del Dottore della Peste, fuori da una città diroccata

In verità i Medici della Peste utilizzavano una semplice bacchetta, come ho indicato prima, per tenere lontani i pazienti infetti e rovistare tra le loro cose contagiate, ad una distanza sicura; ma a volte usavano anche legni, che a volte erano aromatici (secondo una usanza che proveniva dalla più antica tradizione medievale dei lunghi lumi portati nelle processioni o nei cortei funebri dagli appartenenti alle Confraternite religiose) e venivano accesi in punta per il loro profumo, in modo da mitigare il fastidio degli odori putridi dei morti o dei moribondi, e addirittura per bruciarne le ferite infette [Figure 9 e 10].

Figure 9 e 10 – Due acquarelli del 1910 dell’illustratore francese Paul Bineteau: Un Medico indossante un Costume seicentesco di protezione contro la peste [sopra], e Costume di un Chirurgo quarantenario durante la Peste nel Lazzaretto di Marsiglia nel 1819, mentre brucia il Bubbone pestilenziale; entrambi riportanti i tipici indumenti di un Dottore e di un Infermiere come erano vestiti tra Seicento e Sette-Ottocento

Lo sconosciuto autore della stampa del Dottore della Peste

Ancòra prima, però, delle immagini pubblicate da Altzenbach e dal Fürst, esiste una ulteriormente precedente – sebbene sempre dello stesso anno 1656 – raffigurazione identica, per quanto differentemente illustrata e commentata nella didascalia, fatta circolare anonimamente e sempre a Roma (ma contemporaneamente anche a Perugia) su un foglio sciolto sinteticamente disegnato [Figura 11]. Si tratta dell’indubbio prototipo da cui gli incisori tedeschi hanno immediatamente ripreso le loro riproduzioni, con i corrispondenti riferimenti scritti che poco fa ho esposti.

Figura 11 – Autore Ignoto, L’Habito con il quale vanno i Medici per Roma, 1656. E’ la stampa originale (riferibile allo sconosciuto disegnatore romano Italo Columbina: si veda la Figura 12) pubblicata (a Roma e a Perugia) dall’editore perugino Sebastiano Zecchini

Ma se nella litografia lo stampatore in questione ha chiaramente riferito il proprio nome (Sebastiano Zecchini, editore perugino), dell’effettivo autore della immagine nulla egli ha lasciato indicato. Tenendo nel completo anonimato la paternità di questa formidabile icona, divenuta poi nei secoli un esemplare emblema del vestiario medico ai tempi della peste seicentesca, e dopo.

Di tale ignoto disegnatore italiano possono essere due le possibili attribuzioni identificative: la prima, che si tratti dello stesso stampatore perugino (ipotesi tuttavia scartabile anche per il fatto che le mie ricerche rivolte in tale direzione non hanno dato risultati confermanti), e l’altra riguardante quello sconosciuto artista che si firma “I. Columbina” esplicitamente riportato nella incisione fürthiana in basso al centro, e che dichiara di avere eseguito il ritratto del medico “dal vero” [Figura 12].

Figura 12 – Particolare nella incisione del Fürst in cui è chiaramente riportato il nome del disegnatore della immagine (“I. Columbina”), che viene da lui indicata come “ripresa da vero”

Questo per altro strano nome, di cui anche nei suoi confronti le mie abbondanti e puntigliose indagini di ritrovamento hanno dato inesistenti riscontri, o è un nominativo trascritto malamente dall’incisore tedesco, e dunque come tale irrintracciabile, oppure può corrispondere a quel disegnatore che gli esperti del Museo Britannico di Londra ritengono si tratti di un – però anche a loro persona sconosciuta – “J. Columbina”, ovvero anche un possibile “Columbani” (o magari, come più precisamente considero io, un Colombani, se non Colombano: di cui però ugualmente, non sono riuscito a ritracciare alcuna notizia).

Il nome Colombani storicamente più noto, e corrispondente all’epoca in questione, è quello del veneto Paolo, “libraio e stampatore matricolato” (cioè con attestato di matricolazione professionale), nato nel 1722 e morto nel 1800; nei cui dati di riferimento la scheda sempre museal-britannica già riporta una strana incongruenza, attribuendogli una pubblicazione di un testo del Metastasio – l’Artaserse – uscita nel 1730 quando l’editore aveva soltanto 8 anni! E nella cui ascendenza genealogica comunque non appare parente alcuno con iniziale I (o J).

E sebbene senza un accertabile autore, tale gloriosa immagine del 1656 rimane comunque in assoluto la raffigurazione iniziale di quel genere di indumento medico, poi sempre più comunemente indossato nel secolo successivo, e ripreso analogamente addirittura fino all’inizio del Novecento! Perché mai prima – per quanto se ne sappia – una simile figura è stata rappresentata (risultando descritta soltanto verbalmente).

L’inventore della Tuta della Peste

Quella attrezzatura sanitaria con strana maschera corvina è infatti comparsa molti anni prima del 1656 (e la si ritrova dal 1619 a Parigi, durante la peste francese del 1615-21, giunta nella capitale di Francia nel 1618), venendo utilizzata quale provvidenziale rimedio verso la possibilità di contagio dei medici in rapporto diretto con i malati, e come strumento di protezione pressocchè totale da ogni contatto fisico. E la sua invenzione è stata opera del famoso “dottore dei tre monarchi” francesi (Enrico IV, Luigi XIII, e Luigi XIV il  Re Sole), Charles De L’Orme, più elementarmente trascritto Delorme; che davanti al problema infettivo in presenza di pazienti contagiosi e in mancanza di opportuni mezzi protettivi, ideò quella complessa tuta, pressocchè ermetica, per salvaguardarsi da infezioni possibili, mortalmente deleterie, nella necessità di potere proseguire indenne il proprio lavoro di curatore (e guaritore).

Ma di quel suo apparato rimangono soltanto descrizioni scritte, e nessuna raffigurazione visiva nel suo periodo (di cui comunque, e indubbiamente, le riproduzioni tipiche di quasi 40 anni dopo sono del tutto corrispondenti al prototipo iniziale delormeano): e le notizie più autorevoli di tutte rimangono le dichiarazioni epocali riportate dall’amico del medico francese, il connazionale Abate Michele di Saint-Martin (Scudiero del Re e Signore della Mare du Désert, Marchese di Miskou nella Nuova Francia – l’antico Canada, allora colonia francese – Dottore in Teologia alla Università di Roma e poi Rettore dell’Università di Caen), personaggio eccentrico ma anche estremamente sfortunato fisicamente, per la sua natura alquanto deforme, che ha testimoniato ideazione e realizzazione attribuite al Delorme in varie occasioni, espresse in un suo libro biografico da lui scritto su quel dottore: tanto nella prima edizione del 1682 (“Non dimenticò mai il suo cappotto di cuoio del quale era l’autore, che lo copriva dai piedi alla testa a forma di imbracatura, e quella maschera della stessa pelle cui aveva fatto attaccare un naso lungo mezzo piede per contrastare l’aria maligna”) quanto nella seconda dell’anno dopo, 1683 (“Si era fatto, diceva, un abito di tela, in cui l’aria malsana difficilmente poteva penetrare: si metteva in bocca aglio e ruta, infilava incenso nel naso e nelle orecchie, e si copriva gli occhi con lenti tonde; e in questo equipaggiamento assisteva i malati, guarendo quasi tutti ai quali affidò i suoi rimedi”).

Prima della peste del Seicento

Le iniziali normative di governo per la “prevenzione alla diffusione delle malattie epidemiche gravi”, soprattutto riferite alla peste, sono state prese (secondo quanto riferisce lo storico inglese William Wadd, Cavaliere e “Chirurgo Straordinario del Re” britannico Giorgio IV, autore di un testo – Massime Memorabili e Memorie – uscito nel 1827 e pubblicato dagli stampatori Callow e Wilson specializzati nella vendita di libri medici) in Italia, e particolarmente in “Lombardia, e  a Milano, negli anni 1373, 1383, e 1399”.

In precedenza non esistevano particolari studi o indicazioni di rimedio specifiche o scientifiche verso le malattie gravi, e ci si affidava soltanto a prescrizioni generiche basate sulla tradizione empirica e perfino sul riferimento autoritario alle opere classiche, oppure arrivando all’estremo affidamento disperato verso la provvidenza divina: come ancora nel 1576, in piena peste bubbonica, il famoso Cardinale milanese Carlo Borromeo ricordava ai suoi concittadini, irresponsabilmente dèditi ad ogni sorta di evasioni edonistiche (“le mascare, le comedie, i giuochi paganeschi, i balli, i banchetti, gli eccessi delle pompe, le spese disordinate, le risse, le questioni; gli homicidii, le lascivie, le disonestà, le mostruose pazzie e dissolutezze tue”), incitandoli a contrastare “la verga del castigo” della epidemia aggrappandosi al “bastone del sostegno” di Dio.

E fu questo il principale motivo per cui durante gli anni più cruenti della Peste Nera (1346-1353) durante il Medioevo, che nulla si riuscì a fare nei confronti del dilagare del morbo in tutta la Europa, ed in Asia, da dove la malattia proveniva, trasportata attraverso la Via della Seta.

Ed ancòra nel 1630-31, all’ennesimo propagarsi della pandemia pestìfera, siamo in possesso di un sostanziale incapacità di affrontare la malattia con interventi e rimedi risolutori; che le accorate parole del medico veneziano Alvise Zen hanno illustrato con chiare conclusioni di rassegnazione, descrivendo uno scenario devastante da romanzo manzoniano: “Per secoli non ci fu calamità più spaventosa della peste. Il morbo veniva”, anche questa volta, “dall’Oriente e dunque tutte le strade del commercio […] si trasformarono in vie di contagio”. Ed anche per mare, “Assieme alle spezie e alle stoffe preziose, le navi […] trasportarono […] la morte nera”. Lasciando uno “spettacolo così desolato” che costrinse “sùbito” a prendere “una serie di provvedimenti per arginare l’epidemia: furono nominati delegati per controllare la pulizia delle case, vietare la vendita di alimenti pericolosi, chiudere i luoghi pubblici, perfino le chiese. […] Potevamo circolare liberamente solo noi medici. Gli infermieri e i becchini dovevano portare segni distintivi visibili anche da lontano; noi indossavamo una lunga veste chiusa, guanti, stivaloni, e ci coprivamo il volto con una maschera dal naso lungo e adunco e occhialoni che ci conferivano un aspetto spaventevole. Alzavamo le vesti dei malati con un lungo bastone e operavamo i bubboni con bisturi lunghi come pertiche”. Ed in mezzo a tutto questo confuso avvilimento perfino “Illustrissimi medici dell’università […], chiamati per un consulto, disconoscevano addirittura l’esistenza del morbo”, così che “guaritori e ciarlatani inventavano inutili antidoti”.

La Tuta medicale di Delorme, di cui testimonia anche la descrizione zeniana, era comunque sconosciuta nei secoli precedenti, ed i dottori della peste normalmente visitavano i loro pazienti senza precauzioni opportune, come continuamente attestano le opere artistiche tanto nel Cinquecento quanto nei secoli medievali [Figure 13 e 14].

Figure 13 e 14 – Due significative immagini dei curatori della peste nel Cinquecento e nel Quattrocento: nella incisione a bulino (La peste durante l’Assedio di Leida) [sopra], dell’artista olandese Willem De Haen del 1634-35 (in cui è raffigurato il tipico modo cinquecentesco di assistenza medica  – con un dottore tra i malati della pestilenza scoppiata nel 1573-74 nell’assedio della città belga da parte delle truppe spagnole, nella cosiddetta Guerra degli Ottanta Anni – che semplicemente osserva le urine dei pazienti senza alcun accorgimento protettivo); e nella illustrazione di autore ignoto (San Francesco e suoi Monaci mentre curano vittime della lebbra in Italia) [sotto] contenuta nel Codice ‘La Franceschina’ di Monteluce presso Perugia scritto dal frate francescano perugino Jacopo Oddi nel 1474-76 (con i curanti a diretto contatto dei contagiati, secondo un tradizionale criterio medico-assistenziale proveniente intatto dal Medioevo)

 

Altre Maschere dei Dottori della Peste

Dopo le illustrazioni del 1656, il Dottor Becco della Peste con il suo caratteristico vestiario protettivo e mascherato, si è definitivamente fissato nella propria immagine di tipicità iconografica, ritornando nelle pubblicazioni variamente stampate, periodicamente, per tutto il Settecento e oltre [Figure 15 e 16].

Figure 15 e 16 – Due immagini, rispettivamente del 1720 e del 1826, del convenzionale Vestito del Medico della Peste: la prima [sopra], stampata (e molto probabilmente anche incisa) da Philippe Planche (Abito dei Medici, ed altre persone, che visitano gli Appestati) per il ‘Trattato sulla Peste’ del dottore francese Jean-Jacques Manget del 1721; e la seconda [sotto], disegnata dal medico londinese William Wadd, chirurgo straordinario del Re Giorgio IV del Regno Unito (Gran Bretagna e Irlanda), per il suo libro ‘Massime Memorabili, e Memorie’, uscito nel 1827. Per informazione, è evidente che la illustrazione planchese è stata presa da modello per le figure sulle steli della peste marsigliesi [si veda la Figura 4]

Proseguendo in aggiornamenti tecnico-epocali, oppure con reiterati criteri tradizionali, fino al Novecento [Figure 17 e 18].

Figure 17 e 18 – Due foto, entrambe di autori sconosciuti, riportanti la evoluzione – tradizionale e modernizzata – del seicentesco vestiario medico per la peste: in un posto di controllo doganale sulla isola veneziana di Poveglia (Uomo con la Maschera della Peste, 1898) [sopra] e nella tuta del personale sanitario cinese in Manciuria (Abito protettivo per i Medici contro la peste polmonare, 1911) [sotto]

 

Diventando quindi, in certi casi, autentici esemplari della odierna attrezzatura sanitaria di protezione, utilizzata dal personale medico per ripararsi dalla attuale pandemia covidese, e per opportunamente contrastarla nella lotta alla sua espansione [Figura 19].

Figura 19 La odierna Tuta medico-protettiva (isolante e mono-uso) prodotta dalla società di attrezzature sanitarie Ikbolo a Pechino, per il solo mercato cinese (2020)

L’INVENTORE DELLA MASCHERINA MODERNA A PROTEZIONE DAI BATTERI E CONTAGI

Conclusivamente, non voglio dimenticare – su questo argomento di mascherature e mascherine – di considerare Wu Liande (nome così scritto nella ufficiale dizione linguistica cinese della fonetica pin-in, che nella trasposizione anglo-sassone viene più solitamente riportato come Wu Lien-teh) finora rimasto pressocchè sconosciuto al pubblico comune e non specializzato in questioni di medicina moderna: che è il grande medico malese, di origine cinese, nominato Premio Nobel della Medicina nel 1935 per essersi prodigato nella cura delle terribili epidemie di colera e peste polmonare scoppiate in Manciuria nel 1910-11, e poi nel 1920-21 e durata fino al 1931), che ha ideato la moderna mascherina protettiva da portare sul viso (allora confezionata con cotone idrofilo, successivamente rifinito in strati sovrapposti di garza) [Figura 20], usata per gli interventi chirugici e per la difesa dai contagi, ed ancòra adesso indossata comunemente dal personale sanitario guerriero contro il Virus Corona, ma anche da tutti noi [Figura 21].

Figure 20 e 21 – Una foto (di autore ignoto) del 1916 [sopra] mostrante i dottori Wu Liande (a destra) e Frederick Eberson (medico e chirurgo newyorkese, ricercatore esperto di batteriologia), entrambi con la mascherina protettiva, durante un esperimento all’aperto di inalazione contro la peste nel Laboratorio dell’Ospedale a Mukden in Manciuria; e un manifesto pubblicitario (Guerrieri del 2020, disegnato dal giovane illustratore francese Léo Finjean di Vannes in Bretagna) [sotto] raffigurante la Mascherina Contemporanea, indossata dal personale sanitario odierno ‘combattente’ contro la pandemia (in cui viene ricordata anche la precauzione personale di proteggersi “Stando in Casa”)

Wu ha dedicato la sua vita, in mezzo agli ammalati colerosi e di peste pneumonica, per fermare il terribile dilagare della pandemia in Cina, ricercando tutti gli espedienti possibili per trovare una cura e un rimedio efficaci [Figure 22 e 23].

Figure 22 e 23 – Entrambe di autori sconosciuti, queste fotografie mostrano l’attività di ricerca sperimental-curativa wu-liandese (Wu Liande nel suo laboratorio a Wukden, nel 1929) [sopra] e la sua prestazione sanitaria tra gli appestati manciuriani con i suoi numerosi colleghi e collaboratori (Medici e Infermieri della Peste Polmonare in Manciuria, nel 1930)

Ed a lui deve andare la nostra riconoscente gratitudine per avere inventato questo semplice, esiguo, ma eccezionale mezzo di contrasto verso gli agenti patogeni ovunque in circolazione (ed in agguato).

Che è di dovere a noi tutti di usare, per la nostra incolumità, e la sicurezza degli altri: come ha fatto il suo geniale (e generoso) ideatore [Figure 24 e 25].

       Figure 24 e 25 – La stessa immagine riproducente le fattezze di Wu Liande (Fotografo Ignoto, WLT intorno al 1920, senza data) con il viso scoperto, e con la odierna Mascherina protettiva da lui provenuta (Corrado Gavinelli, WLT intorno al 2020, 2021)

Corrado Gavinelli

Torre Pellice, Marzo 2021

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