di Tatiana Yugay*

Nelle seguenti pagine si analizza l’uso dell’argomento corruzione nell’imporre cambiamenti di regime politico; dal «colpo di stato» giudiziario in Italia nel decennio 1990 a una serie di «rivoluzioni colorate» avvenute in Medio Oriente e Nord Africa all’inizio del 21° secolo. L’autrice conclude che il cambiamento del paradigma della politica estera degli Stati Uniti, dagli interventi militari diretti ai metodi ibridi volti a cambiare i regimi non graditi, porta a un uso crescente di operazioni presentate come di anti-corruzione che risultano in destabilizzazioni, a basso costo ma estremamente efficaci, di altri Paesi.

L’autrice introduce il concetto delle tecnologie informatiche e finanziarie (TIF) della guerra ibrida, che ritiene siano utilizzate attivamente da vari Paesi occidentali, in primo luogo gli Stati Uniti.

È possibile individuare tre tipi principali di tecnologie informatiche e finanziarie:

1) le cosiddette offshore leaks;

2) gli scandali di corruzione finalizzati a un cambio di regime;

3) le pubblicazioni dei «rating» finanziari delle agenzie internazionali al fine di ridurre l’attrattività degli investimenti esteri al paese[1].

Questo scritto esplora l’uso delle TIF nella forma di scandali di corruzione, che nella maggior parte dei casi sono usati per sollevare manifestazioni di massa contro i governi, e spesso hanno portato a cambiamenti di regime nei Paesi bersagliati.

  1. La genesi del cambio di regime, dall’intervento militare alla guerra ibrida

Dalla seconda metà del XIX secolo e durante tutto il XX secolo, gli Stati Uniti hanno spesso effettuato cambi di regime (soprattutto nell’America Latina e nel Sud del Pacifico occidentale), ma solo a partire dalla fine dell’ottobre 1998 l’opera di cambio di regime è stata ufficialmente riconosciuta come linea portante della politica estera degli Stati Uniti[2].

È ovvio che un cambiamento di regime costituisce una grave violazione della sovranità di uno Stato indipendente e una violazione del diritto internazionale. Per questo motivo, gli istituti di ricerca e think tank degli Stati Uniti cercano continuamente giustificazioni ideologiche per queste azioni, al fine di dare una parvenza di legittimità agli occhi dei partner della NATO, della comunità internazionale e dei suoi cittadini.

Dopo la fine della guerra fredda, gli Stati Uniti hanno ampiamente attuato cambi di regime con il pretesto della democratizzazione. “La storia recente suggerisce un’ondata di interventi militari da parte dei Paesi democratici, volta a rafforzare le istituzioni democratiche in altri Paesi”[3]. Questa pratica aveva raggiunto il suo culmine quando George W. Bush la incluse nella “National Security Strategy 2002”[4]

Masters osserva che dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno avuto luogo tre ondate di “interventi democratici”, o della cosiddetta “promozione aggressiva della democrazia”, suddivise in tre ventenni: 1) 1940-1950, 2) 1960-1970 e 3) 1980-1990[5].

A questo proposito, gli analisti occidentali parlano della “terza ondata di democratizzazione” per indicare “la diffusione globale di democrazia negli ultimi tre decenni”. Allo stesso tempo, gli ideologi occidentali non nascondono il fatto che la democratizzazione, dal loro punto di vista, è sinonimo di cambio di regime. Così, J. Chin indica che un prerequisito per “una transizione di successo verso la democrazia” è il ritiro volontario o forzato dei leader nazionali[6].

Bogaards osserva che «i concetti di cambiamento di regime e di democratizzazione vengono spesso utilizzati in senso molto ampio nella letteratura sulla terza ondata di democratizzazione». Tuttavia, l’introduzione del concetto di cambio di regime nel discorso scientifico non ha ricevuto molta attenzione[7]. Infatti, il termine di cambiamento di regime nella letteratura esistente è inteso come fatto tecnico e operativo. Il concetto di “cambio di regime” è stato utilizzato per la prima volta nel 1925. L’Oxford Dictionary lo definisce come “la sostituzione di un governo con un altro, soprattutto con l’uso della forza militare”[8].

La forza principale della promozione aggressiva della democrazia americana è stata la  National Endowment for Democracy (NED). Creata nel 1983, la NED si è posizionata come un’organizzazione non governativa privata, la cui attività è focalizzata nello sviluppo e il rafforzamento delle istituzioni democratiche in tutto il mondo. La NED fornisce ogni anno più di 1.000 borse premio per sostenere i progetti delle ONG all’estero, lavorando sodo per raggiungere obiettivi democratici in più di 90 paesi[9].

In realtà, la NED non è un’organizzazione non governativa. In primo luogo, i suoi padri fondatori nel 1983 sono stati il presidente Ronald Reagan e il direttore della CIA W.Casey[10].  In particolare, da allora cresce la nomea della CIA come organismo dedicato all’organizzazione di attentati contro capi di Stato, di destabilizzazioni di governi stranieri, di operazioni coperte di sorveglianza illegale sulla popolazione degli Stati Uniti[11]. Sotto l’ombrello della NED vi sono quattro affiliati, tra cui il National Democratic Institute e l’International Republican Institute, gestiti rispettivamente dall’ex Segretario di Stato Madeleine Albright e dal senatore Dan Sullivan.

In secondo luogo, la NED è finanziata dal bilancio federale degli Stati Uniti tramite il programma “Attività Internazionali”, attraverso l’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale (USAID), per circa $100 milioni all’anno, che coprono il 97% delle sue spese. Il restante 3% è costituito da contributi di grandi imprese come ad esempio Chevron, Coca-Cola, Goldman Sachs, Google, Microsoft, Camera di Commercio degli Stati Uniti[12].

Come è scritto sul sito ufficiale, la Fondazione finanziò il movimento di opposizione “Solidarietà” in Polonia, “Carta 77” in Cecoslovàcchìa, “Otpor” in Serbia. Negli anni 2011-2014, la NED ha finanziato le ONG ucraine per quasi 14 milioni di dollari. La NED ha sostenuto diverse decine di organizzazioni non governative in Russia, in particolare il Gruppo di Helsinki di L.Alekseeva, il movimento “Per i diritti umani” di L.Ponomariov e il Centro sociologico di Levada.

Nel 2014 ha speso 530 mila dollari al fine di “sensibilizzare l’opinione pubblica sulla corruzione”, vale a dire per raccogliere l’informazione sulla corruzione, reale o immaginaria, nell’interesse del Dipartimento di Stato e delle ONG sponsorizzate dagli USA in Russia[13].

La sovversione attuata dalla Fondazione è stata studiata dalle forze dell’ordine russe.

Il 28 luglio 2015, l’Ufficio del Procuratore Generale russo ha riconosciuto l’attività della NED come una minaccia “per l’ordine costituzionale, la difesa dello Stato e la sicurezza nazionale”. Secondo l’Ufficio del Procuratore Generale, attraverso la Fondazione erano controllate le ONG russe che partecipavano nelle attività di “riconoscimento dei risultati delle elezioni come illegittime, di organizzazione delle azioni politiche per influenzare le decisioni prese dalle autorità, per screditare il servizio nelle forze armate russe”.

Secondo l’Ufficio del Procuratore Generale, nel 2013-2014, la NED finanziò le organizzazioni commerciali e non-profit russe per circa 5.2 milioni di dollari[14].

Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti espresse “profonda preoccupazione” per la sorte della società civile russa dopo la sospensione delle attività della NED in Russia[15]. 18 luglio 2017, l’Agenzia federale di supervisione delle comunicazioni, delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni di massa aveva bloccato il sito della NED[16].

Il primo esempio operativo della “terza ondata di democratizzazione” è stata la sorte riservata al regime di Saddam Hussein, che gli Stati Uniti cercavano di rovesciare dal 1991 con la prima guerra del Golfo. Nel novembre 1998, l’amministrazione Clinton disse che gli Stati Uniti avrebbero cercato di andare oltre la deterrenza per promuovere il cambiamento di regime[17]. La politica di cambio di regime è stata approvata dal Congresso, che nel 1998 adottò la legge sulla liberazione dell’Iraq[18].

Diversi scenari di cambiamento erano presentati: 1) le operazioni segrete, 2) l’uso di forze speciali, 3) l’attacco diretto e 4) le operazioni di guerriglia[19].

Negli ultimi dieci anni, gli sforzi degli Stati Uniti per cambiamenti di regime hanno ricevuto un forte sostegno ideologico dalle Nazioni Unite. Il documento finale del Vertice mondiale delle Nazioni Unite nel 2005 introdusse una nuova categoria di diritto internazionale: “la responsabilità di proteggere i popoli dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica e dai crimini contro l’umanità” (articoli 138-140)[20].

Questo concetto è estremamente semplice e si basa su tre principi fondamentali.

In primo luogo, lo Stato ha il dovere di proteggere il suo popolo dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica e dai crimini contro l’umanità.  In secondo luogo, “la comunità internazionale deve aiutare gli Stati a esercitare questa responsabilità, e rafforzare le capacità di proteggere” e, in terzo luogo, quando lo Stato evidentemente  non è in grado di “proteggere il popolo dai quattro crimini indicati, la comunità internazionale dev’essere pronta ad azioni collettive, tempestive e in maniera decisiva” attraverso il Consiglio di sicurezza e in conformità con lo Statuto delle Nazioni Unite[21].

Non c’è nessun dubbio che l’ONU ha adottato il concetto di responsabilità di proteggere con le migliori intenzioni, tuttavia, l’ambiguità originaria di formulazione ha portato a una confusione che richiede di colmare le lacune interpretative, molto gradite agli Stati Uniti. In particolare, ove si tratta delle azioni collettive della comunità internazionale attraverso il Consiglio di Sicurezza e in conformità con lo Statuto delle Nazioni Unite, perché gli Stati Uniti spesso si sono assunta la responsabilità di agire da soli per decidere il cambiamento di regime, nei casi in cui non riescono a raggiungere l’approvazione del Consiglio di Sicurezza.

Janik indica che «le operazioni militari post-guerra fredda sono sempre giustificate con riferimento al rispetto dei diritti umani e di legittimità del governo dello Stato bersagliato. A cominciare dalla no-fly zone sull’Irak istituita dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Francia, il principio di sovranità è stato rivisto, così come l’attenzione si è spostata dalla pace internazionale e la sicurezza nel senso interstatale (come era intesa all’origine) agli individui come beneficiari finali dell’ordine internazionale».

La fase finale di questo processo è stata la formulazione della dottrina di responsabilità di proteggere. Come sottolinea Janik, «il problema centrale risiede nel fatto che la dottrina della responsabilità di proteggere, esattamente come il concetto precedente di intervento umanitario, in fin dei conti può essere utilizzata come un semplice pretesto per raggiungere obiettivi geostrategici: in particolare il cambiamento dei regimi non graditi». In definitiva, si può sostenere che l’uso di forza in nome dei diritti umani fondamentali quasi sempre implichi un cambiamento di regime. Inoltre Janik considera questa dottrina dal punto di vista del diritto internazionale in particolare, e pone la questione importante del rapporto tra diritti umani e sovranità dello Stato. «La dottrina della responsabilità di proteggere è basata sulla comprensione della sovranità come relativa al comportamento degli Stati e dei loro governi nei confronti di loro cittadini. Quindi, v’è solo un piccolo passo tra l’intervento in nome dei diritti umani e il rovesciamento dei governi, responsabili di atrocità di massa, al fine di imporre un sistema democratico, o addirittura al fine di creare un nuovo Stato (democratico)»[22].

R.K.Holms osserva che «a livello globale v’è un notevole disaccordo sulla questione delle norme di comportamento, tra l’Occidente e il resto del mondo. L’Occidente ritiene che la “responsabilità di proteggere” sia un importante passo avanti del diritto internazionale, che integra l’esistente capitolo 7 dello Statuto delle Nazioni Unite che prevede la possibilità di un intervento militare in caso di aggressione di uno Stato contro un altro. La Responsabilità di proteggere introduce un nuovo principio che può autorizzare un intervento militare negli affari interni degli Stati. Il resto del mondo, guidato dalla Russia e dalla Cina, attribuisce grande importanza al principio di non ingerenza. L’Occidente sostiene anche il principio di non intervento come premessa generale. La domanda è: in quali casi la dottrina della “responsabilità di proteggere” può superare il principio di non interferenza?» [23].

Murray scrive che «la responsabilità di proteggere è una dottrina che chiede il cambiamento fondamentale dei nostri concetti di sovranità e sicurezza nazionale. Invece il modello di sovranità che per secoli ha dominato il sistema internazionale, implica che lo Stato è dotato di status giuridico sovrano in virtù della capacità di esercitare potere sul popolo e sul territorio. Con il principio della Responsabilità di proteggere, nei casi in cui lo Stato o il regime non ha eseguito soddisfacentemente le proprie responsabilità, gli altri Stati possono assumersi la responsabilità di intervenire in nome della parte lesa»[24].

La dottrina della responsabilità di proteggere dà, nei fatti, carta bianca agli Stati Uniti per il perseguimento aggressivo dei loro interessi nazionali, e per questo gli analisti politici e militari degli Stati Uniti hanno accolto la sua adozione con grande entusiasmo. Tale dottrina risulta dall’azione delle  molto potenti ed efficaci lobby politiche, tra cui istituti di ricerca, funzionari governativi che lavorano in governi nazionali e in organizzazioni internazionali[25]. Uno di questi centri è l’ONG “Centro globale per la responsabilità di proteggere”, creata nel 2007. La sua missione è di “trasformare il principio della responsabilità di proteggere in una guida pratica per l’azione contro le atrocità di massa.” Tra i suoi fondatori vi sono organizzazioni non governative come il Gruppo di Crisi, Human Rights Watch, Oxfam International, Refugees International, e WFM-Istituto per la politica globale.

Gli sponsor del Centro comprendono la Carnegie Foundation, la “Open Society” di George Soros, la Markartur Foundation e altri[26].

La prima vittima della dottrina di responsabilità di proteggere è stata la Libia. Il 26 Febbraio 2011, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adottò all’unanimità la risoluzione №1970, basata direttamente sulla dottrina della responsabilità di proteggere che aveva condannato “le violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani” in Libia. Così il Consiglio di Sicurezza impose un certo numero di sanzioni internazionali e domandò di porre la fine alle violenze, racommandando alle autorità libiche di assumere la responsabilità di proteggere la popolazione. Il Consiglio inoltre decise di deferire il dossier libico alla Corte penale internazionale.

Con la risoluzione №1973 del 17 marzo 2011 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva domandato l’immediata cessazione in Libia delle ostilità e dei “crimini contro l’umanità”. Il Consiglio per conseguenza diede agli Stati membri la facoltà di “adottare le misure necessarie” per proteggere i civili posti sotto minaccia di attacco nel proprio Paese, ad esclusione della occupazione straniera in qualsiasi forma su qualsiasi parte del territorio libico. Pochi giorni dopo, in conformità con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, aerei della NATO hanno attaccato le forze armate di Gheddafi[27].

Secondo i falchi di guerra, per avviare l’operazione militare di cambio di regime sono necessarie due condizioni: 1) la prova della colpevolezza del regime e 2) la richiesta di intervento da parte di oppositori interni del governo[28].

Come mostrano gli esempi dell’Irak e della Libia, le prove sono facili da fabbricare ad opera di quinte colonne. Dopo la caduta di Ghieddafi, il successivo candidato per la destabilizzazione è stata la Siria. Nel 2012, The Atlantic ha pubblicato un articolo dal titolo eloquente “Perché abbiamo il dovere di proteggere la Siria?” propugnando il rovesciamento di Bashar al-Assad. In particolare era scritto che “il regime siriano è stato più persistente e più atroce che il regime di Gheddafi”[29]. Nonostante l’eliminazione dei cumuli di armi chimiche nel paese, la cosiddetta organizzazione per i diritti umani “Caschi Bianchi”, ha continuato a denunciare attacchi chimici e divulgare fake news che poi amplificate dai media occidentali. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno continuato a finanziare, addestrare e fornire armi ai gruppi armati illegali dell’opposizione. A poco a poco si è formata una pubblica opinione avversa al “regime criminale” e favorevole all’opposizione che chiedeva il rovesciamento di Assad. Allo stesso tempo, sono stati ampliati i tentativi di screditare il leader siriano, in particolare accusandolo di corruzione in una serie di pubblicazioni clamorose sui cosi detti Panama Papers[30].

Dopo l’euforia del picco della “terza ondata di democratizzazione” è arrivata l’amarezza della sbornia.

Come ha notato M.D.Atkins, «le lunghe guerre in Irak e in Afghanistan hanno dimostrato che l’intervento militare volto a un cambiamento di regime, può essere estremamente costoso e pieno di rischi. Per questo motivo, è improbabile che nel prossimo futuro gli Stati Uniti utilizzino gli interventi militari diretti come strumento contro regimi ostili. Gli Stati Uniti possono usare mezzi meno evidenti per cambi di regime e per diffondere la democrazia – vale a dire, sponsorizzare la rivolta popolare. Il governo degli Stati Uniti può cercare di sponsorizzare o di assistere i ribelli all’interno dei regimi che costituiscono la minaccia per i propri interessi nazionali»[31].

Simile è l’opinione di J.R.Shindler, che ha scritto che «durante la loro storia, gli Stati Uniti hanno dimostrato la capacità di effettuare cambi di regime, utilizzando la modalità di guerra. Tuttavia, i cambiamenti di regime non hanno portato risultati strategici favorevoli agli Stati Uniti sul  lungo termine.» Egli pertanto ritiene che «ci si può aspettare un passaggio graduale dalle guerre ad alta intensità che gli Stati Uniti hanno portato alla perfezione in ambito tattico e operativo», perché il resto del mondo «non sembra interessato a condurre questa lotta contro gli Stati Uniti,  usando i metodi che piacciono a loro.» Come conseguenza, in particolare a seguito dei recenti risultati problematici [in Irak e Afghanistan] l’attenzione degli Stati Uniti si rivolgerà all’uso dei metodi speciali di guerra[32].

Così, negli ultimi anni si è cambiato il paradigma della politica estera statunitense, da interventi militari diretti, alla guerra ibrida. A questo proposito, è necessario descrivere almeno brevemente la relazione tra i concetti del cambio di regime, della guerra ibrida e della rivoluzione “colorata”. Anche se di recente se ne parla tanto e sono ampiamente utilizzati nella letteratura analitica e dai mass media, sono concetti praticamente non studiati come categorie scientifiche.

Per approfondire l’argomento  proponiamo le seguenti ipotesi:

1 il cambiamento di regime è l’obiettivo finale di qualsiasi azione ostile degli Stati Uniti verso gli Stati sovrani;

2 la guerra ibrida e la rivoluzione  “colorata” sono i modi per raggiungere questo obiettivo, vale a dire il cambiamento di regime;

3 il concetto della guerra ibrida è più ampio della rivoluzione colorata, che è una delle sue forme;

4 l’obiettivo finale del cambio di regime è sempre stato il controllo delle risorse (risorse naturali, territorio, beni pubblici, e così via).

 

  1. La metodologia dell’uso delle tecnologie anti-corruzione per il cambiamento di regime

Negli ultimi decenni, v’è un processo permanente di rivoluzioni colorate nella ex-Unione Sovietica, nel Medio Oriente e nell’America Latina, che sono scoppiate istantamente dalle scintille di scandali di corruzione. Non di rado succede che i precedenti leader corrotti siano cambiati con personaggi ancora più avidi e senza scrupoli.

Nel contesto di questo scritto merita una particolare attenzione il libro di S.Beyerle “La distruzione della corruzione: il diritto delle persone alla responsabilità e alla giustizia“, che, insieme alla brochure di J.Sharp “Dalla dittatura alla democrazia. Basi concettuali di liberazione” è consigliato dal sito per attivisti di rivoluzioni colorate (https://wagingnonviolence.org).  Beyerle analizza la massiccia campagna anti-corruzione in 12 paesi, compilando i risultati e sviluppando le raccomandazioni per il loro ulteriore utilizzo in attività sovversive.

Vale a dire che Shaazka Beyerle amplia in modo significativo il concetto della corruzione stessa. Alla comprensione standard di corruzione, intesa come l’abuso di potere pubblico per un vantaggio personale, si contrappone la definizione estesa di «abuso del sistema di potere per vantaggi personali, collettivi o politici, spesso anche una complessa rete di intrecci di relazioni, espressa o implicita, con interessi radicati stabiliti che possono operare verticalmente all’interno delle istituzioni o in orizzontale in ambito politico, economico e sociale nella società o in ambito transnazionale»[33]. L’essenza di questa innovazione sta nel fatto che il fenomeno della corruzione non si limita alle transazioni non autorizzate dei funzionari pubblici, ma riguarda anche organizzazioni private e individui.

Vorrei sottolineare che una tale definizione estremamente ampia di corruzione riconduce  in pratica alla guerra ibrida. Con questa logica, ogni Stato può essere dichiarato corrotto a priori, anche se la sua leadership non è tale: ci sono sempre casi di corruzione nel mondo degli affari o nella criminalità organizzata. Questa interpretazione apre un’ampio spazio per l’ispirazione di rivoluzioni colorate. Nessun governo può essere immune da rivoluzioni colorate, mentre negli ultimi dieci anni la corruzione è stata un motivo principale per l’organizzazione di proteste di massa.

Infatti la definizione di Beyerle ha ampliata la gamma di operazioni corrotte: insieme alla corruzione classica, sono inclusi l’esportazione illegale di capitali, il riciclaggio di denaro, l’evasione fiscale, l’uso di giurisdizioni offshore, il possesso di costosi immobili e beni di lusso[34]. E si contano non solo tali delitti da parte dei funzionari, ma anche di organizzazioni private e individui.

Non ci può essere alcun dubbio che l’abuso di potere e l’attività illegale devono essere fermati in modo rigido e costantemente puniti dai tribunali, tuttavia. L’uso di questi delitti da parte di forze esterne come il motivo per cambiare un regime  tuttavia costituisce una diretta interferenza negli affari interni di uno Stato. E, infine, i teorici delle campagne anti-corruzione estendono ulteriormente il campo della corruzione, dichiarandola la radice di tutti i mali sociali: la disuguaglianza, l’ingiustizia, la povertà, la disoccupazione, il degrado sociale, alimentando così l’odio per un “regime corrotto”. Con questo approccio fondato sull’eccessiva estensione del concetto di corruzione può portare praticamente a riferirsi a tutti i problemi socio-economici.

Bisogna ammettere che la Beyerle esprime una serie di osservazioni giuste circa l’inefficacia della lotta ufficiale contro corruzione, di cui usufruiscano i teorici e gli operativi delle rivoluzioni colorate. A mio parere, i metodi per combattere contro la corruzione suggeriti da Beyerle potrebbero essere  utilizzati dai partiti di governo al fine di neutralizzare le attività opportunistiche di gruppi d’opposizione. Secondo Beyerle, sono infinite le iniziative dei governi attuate per combattere la corruzione: la creazione di un numero crescente di commissioni, lo sviluppo di nuove o migliori normative, codici di condotta, risoluzioni che hanno un impatto minimo sulla corruzione vera e propria.

Beyerle conclude che per sradicare questo male sociale non si può partire dall’alto, ma solo da movimenti popolari che crescono dal basso. Infatti la stessa Beyerle cita l’esempi di campagne anti-corruzione di successo in cui è chiaramente visibile “la mano invisibile” di ONG esterne e dei loro cloni interni. Lei scrive: «Movimenti civili organizzati e campagne strategiche sono particolarmente adatte per un approccio sistematico per sradicare la corruzione e gli abusi di potere, mettendo pressione su altri settori e fonti non governative di corruzione nella società.» Il «vantaggio strategico della resistenza non violenta nella lotta contro la corruzione è l’uso dei mezzi per stimolare l’azione extra-istituzionale al fine di incoraggiare azioni quando i detentori del potere sono corrotti… e i canali istituzionali sono bloccati o inefficaci” [35].

Beyerle scrive con soddisfazione che nella lotta contro la corruzione si vede un cambiamento del paradigma storico negli ultimi dieci anni. Così, il tema trasversale della XV Conferenza internazionale sulla lotta alla corruzione (2012) era “Mobilitare le persone: Unire gli agenti di cambiamento”.  “Strategia 2015” di Transparency International considera come una priorità: «L’empowerment delle persone e dei partner in tutto il mondo per agire contro la corruzione. La sfida è quella di interagire con le persone più ampiamente che mai, perché in fin dei conti, solo la gente può fermare la corruzione»[36]. Dietro la facciata degli appelli delle organizzazioni internazionali, si nasconde una verità sinistra: la pratica di interferire negli affari interni di Stati sovrani con il pretesto della lotta contro la corruzione ha ricevuto alte benedizioni e continuerà a crescere.

  1. L’anatomia di un morbido cambio di regime in Italia nei primi anni ’90

 Bisogna sottolineare che gli Stati Uniti si avvalgono di tecniche di guerra ibrida, non solo contro i suoi nemici dichiarati, ma contro gli alleati che non considerano sufficientemente fedeli. Tuttavia, in questo caso, essi usano tecniche segrete e sofisticate. Per la prima volta, un vero scenario di “anti-corruzione” è stato realizzato non contro un paese del “terzo mondo” ma contro uno Stato che è sempre rimasto un fedele alleato della NATO e uno dei fondatori dell’Unione Europea, ossia l’Italia. L’analisi retrospettiva della situazione politica in Italia nei primi anni ‘90 porta alla conclusione che il Paese sia stato assoggettato a una guerra ibrida vera e propria, anche se il termine stesso a quel tempo non esisteva.

Dall’inizio del 1992 alla fine del 1994, l’Italia subì una serie di scosse politiche senza precedenti fondate sulle rivelazioni dell’esistenza della diffusa e sistematica corruzione politica.

Il punto vulnerabile del sistema politico italiano era stata la pratica di finanziamento dei cinque maggiori partiti tramite donazioni aziendali volontarie ma di fatto obbligatorie. Le fonti di finanziamento erano segretamente divise tra i diversi partiti[37]. Questo sistema di finanziamento, divenuto tradizionale, era percepito dalla società italiana come un male inevitabile.

L’operazione della magistratura chiamata “Mani Pulite” si è svolta negli anni 1992-1994. Durante questi anni, 70 magistrati italiani hanno indagato le attività di 12 mila sospetti e hanno effettuato circa 5.000 arresti. Al termine delle indagini sono stati sottoposti a giudizio 1.233 imputati per corruzione, concussione, finanziamento illecito dei partiti politici e creazione di società fantasma.

Ancor più che l’aspetto quantitativo, colpisce la rilevanza qualitativa degli indagati e imputati.

Sei ex Primi ministri, più di cinquecento membri del Parlamento e diverse migliaia di funzionari sono stati indagati. Tra questi c’erano politici di primo piano come Bettino Craxi (Segretario del Partito socialista e il Primo ministro nel periodo 1983-1987), Giovanni De Michelis (Ministro degli Esteri, 1989-1992), Renato Altissimo (segretario del Partito Liberale Italiano, ex ministro della Sanità), Arnaldo Forlani (Segretario della Democrazia Cristiana e Primo Ministro, 1980-1981), Claudio Martelli (Vice Segretario del Partito Socialista e il ministro della Giustizia, 1991-1993).

Sei mesi dopo l’inizio del maxi processo, il panorama politico del Paese era cambiato radicalmente. Erano stati distrutti il governo del Pentapartito e i partiti storici che vi facevano parte: Partito socialista (PSI 1892-1994), partito Cristiano democratico (DC 1942-1994), Partito socialdemocratico (PSDI 1947-1998), Partito repubblicano (PRI 1895) e Partito liberale (PLI 1922-1994).

La natura politica dei processi anti-corruzione era evidenziata dal fatto che l’unico grande partito sopravvissuto dopo l’operazione “Mani Pulite”, è stato il Partito comunista italiano, il più grande partito comunista d’Europa. Ma questo non significa che la sua leadership non fosse stata coinvolta nella corruzione, seppure marginalmente.

Così, Stanton H. Burnett e Luca Mantovani, autori del libro dal titolo eloquente “The Italian Guillotine”, scrivono che «Un gruppo di magistrati altamente politicizzati, in larga maggioranza orientati a sinistra, agendo come pubblici ministeri, hanno usato una legittima inchiesta giudiziaria per perseguire, selettivamente, i loro nemici politici, ignorando o minimizzando misfatti simili dei loro alleati politici. L’investigazione di fondo è stata un’inchiesta su pratiche che erano andate avanti per decenni… I magistrati erano abbondantemente appoggiati da un gruppo di quotidiani e settimanali, tutti di proprietà di alcuni grandi industriali che avevano una chiara posta in gioco nel successo del colpo di Stato.»[38].

Una domanda legittima sorge spontanea: l’operazione di “Mani Pulite” per sradicare la corruzione della società italiana ha avuto successo, o no? A. Vannucci indica che i processi di “Mani Pulite” hanno ottenuto solo un impatto di breve respiro sulla corruzione. Il ruolo dei giudici, a cui dopo il 1992 la società civile ha delegato il compito di modificare la classe politica e di purificare tutto il sistema, ha avuto un effetto boomerang e ha lasciato un’eredità politica di crescenti tensioni istituzionali e instabilità sociale[39].

L’evidenza suggerisce che la corruzione in Italia non è scomparsa ma, al contrario, è diventata più sofisticata. La prima relazione della Commissione europea contro la corruzione ha osservato l’alto livello di corruzione in Italia, in particolare a causa dei forti legami tra politica e criminalità organizzata. Si cita il rapporto della Corte dei Conti italiana, da cui risulta che la corruzione costava all’economia nazionale quasi 60 miliardi di euro all’anno, il che ammonta a quasi il 4% del PIL[40]. Secondo l’edizione speciale dell’Eurobarometro 2013, dedicato ai temi della corruzione, il 97% degli italiani ritengono che la corruzione sia diffusa nel proprio Paese, mentre in media nei Paesi UE tale percezione allora era del 76%[41].

È evidente che né il sistema politico né gli elettori e i cittadini italiani sono stati i vincitori dal terremoto istituzionale degli anni 1992-94. A questo proposito, alcuni ricercatori sospettano che vi sia stata un’ingerenza politica estera, meglio dire transatlantica, sui giudici di Milano. Tale ipotesi prima di tutto è stata espressa da Bettino Craxi nel settembre 1992. «Io sto lanciando un grido d’allarme a tutti. Ci sono spinte da destra e da sinistra, una nuova strategia degli opposti estremismi che, attraverso il dissolvimento dei partiti, punta ad introdurre in Italia una sorta di democrazia elitaria. Non c’è una mente unica dietro a questo disegno, ma più centri di potere economico, finanziario ed editoriale, una cupola che vorrebbe avere mano libera, sgombrando l’Italia dai partiti per trasformarla a suo uso e consumo. Gli stessi che hanno altri obiettivi come quello di papparsi con le privatizzazioni indiscriminate i beni dello Stato»[42].

Dopo 10 anni, questa congettura fu confermata da parte degli Stati Uniti. Il 29 agosto 2012, il quotidiano La Stampa ha pubblicato un’intervista postuma di Richard Bartholomew, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia negli anni 1993-1997, che aveva rivelato i contatti inappropriati tra il consolato degli Stati Uniti a Milano e i giudici del pool “Mani Pulite”[43].

Il giorno dopo, sullo stesso giornale è stata pubblicata una dettagliata intervista con P. Semler, che fu console degli Stati Uniti a Milano all’epoca di “Mani Pulite”, che ha confermato gli stretti contatti con il giudice del pool Antonio Di Pietro[44].

Francesco Cossiga, che era il Presidente dell’Italia all’inizio dell’operazione “Mani Pulite”, in un’intervista al Corriere della Sera nel 2008 dichiarò, «Credo che gli Stati Uniti e la Cia non ne siano stati estranei; così come certo non sono stati estranei alle “disgrazie” di Andreotti e di Craxi»[45]. L’ex ministro andreottiano Paolo Cirino Pomicino ha rivelato che all’alba di Tangentopoli, «il capo della Cia, Woolsey, tenne una conferenza in California e spiegò che l’amministrazione Clinton aveva autorizzato lo spionaggio industriale per difendere le imprese americane nel mondo. In realtà successe anche altro. Gli americani raccolsero parecchie informazioni sul sistema di finanziamento dei partiti e su atti veri e propri di corruzione. Non è un caso che nel 1992, a Milano, sbarca l’agenzia privata Kroll, con spioni a contratto»[46].

Si può quindi immaginare che la CIA abbia contribuito a compilare il dossier sul finanziamento illecito dei partiti politici e su singoli casi di corruzione. Il direttore della CIA Woolsey fece presente al governo del suo paese che qualora ce ne fosse stata la necessità avrebbero potuto far scoppiare degli scandali[47].

Quindi esiste una grande probabilità che non solo l’esponente del pool “Mani Pulite”. Antonio Di Pietro abbia in anticipo informato il consolato americano sul processo in cantiere, ma anche che la CIA abbia alimentato le indagini con  le proprie informazioni.

Quindi si vede che v’era un chiaro interesse degli Stati Uniti nel processo “Mani Pulite”. L’esperienza storica dimostra che gli interessi nazionali statunitensi sono sempre strettamente legati alle  risorse naturali di altri Paesi. L’Italia è quasi priva di risorse naturali, tuttavia, fino al 1990 aveva una importante ricchezza nazionale cioè le sue grandi aziende pubbliche.

Nel 1992, lo Stato controllava i quattro quinti del sistema bancario, l’intero sistema ferroviario e aereo, le autostrade, le reti di gas, elettricità e acqua, la telefonia, buona parte dell’industria chimica e siderurgica, e poi assicurazioni, fibre, impiantistica, vetro, meccanica ed elettromeccanica, pubblicità, spettacolo, alimentare, grande distribuzione. Il 16 per cento degli occupati dipendeva da aziende pubbliche. Per costruire e finanziare l’industria pubblica nel dopoguerra lo Stato aveva sborsato circa 75 miliardi euro, tra dividendi e privatizzazioni ne aveva incassati 65, ma aveva ancora in portafoglio un patrimonio mobiliare valutabile in oltre 35 miliardi. Il bilancio quindi risultava attivo per circa 25 miliardi[48].

Al fine di acquisire al sistema privato le proprietà dello Stato era necessario schiacciare il governo italiano, che dal 1946 era guidato dalla Democrazia cristiana, tranne piccoli interludi in cui il governo era presidiato dai repubblicani e socialisti.

Per l’Italia, il 1992 fu un anno decisivo. Vigeva un governo controllato da DC e PSI, con Andreotti e Craxi.  Ovviamente, questo tandem di statisti forti non avrebbe permesso la svendita dei beni dello Stato. Tuttavia, entrambe queste grandi figure politiche sono state compromesse agli occhi degli elettori.

Se il ruolo delle agenzie di intelligence degli Stati Uniti nell’operazione “Mani Pulite” per molto tempo  era rimasto nell’ombra, l’impatto diretto dei circoli finanziari anglo-americani per avviare il processo di privatizzazione in Italia è stato evidente fin dall’inizio.

Il quotidiano La Repubblica scrisse che il 2 Giugno 1992  lo yacht «Britannia» della regina d’Inghilterra aveva ospitato un incontro segreto sul tema della privatizzazione. I capi delle grandi aziende italiane di proprietà statale, banchieri e dirigenti del Ministero del tesoro si erano incontrati con esperti finanziari britannici, come ad esempio i presidenti delle banche Baring e Warburg[49]. L’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi (che partecipò agli incontro sul “Britannia”) indicò chiaramente nel suo breve intervento di benvenuto che l’ostacolo principale per la riforma del sistema finanziario dell’Italia era il sistema politico postbellico allora vigente[50]. Sei mesi dopo, cominciò l’operazione “Mani pulite” che eliminò quell’ostacolo.

L’incontro sullo yacht “Britannia” ebbe un grande successo (per gli organizzatori) ed è servito ad avviare le privatizzazioni accelerate dell’industria statale in Italia. Il governo italiano invitò come consulenti per le privatizzazioni le banche Goldman Sachs, Merrill Lynch e Salomon Brothers, che hanno svolto un ruolo determinante nel valutare le imprese statali.

Già l’11 luglio 1992, le grandi imprese statali Eni, Enel, IRI e INA venivano trasformate in società per azioni, e il governo si dichiarò pronto a ridurre la propria quota di partecipazione azionaria sotto il 51%. È interessante notare che l’élite finanziaria anglo-americana ha partecipato alle privatizzazioni del 48% delle imprese italiane[51].

Tuttavia, all’élite finanziaria globale non bastava ottenere l’accesso all’acquisizione dei beni pubblici dell’economia italiana di enorme valore: volevano comprarli al prezzo più basso possibile. A tal fine, nei giugno-luglio 1992, gli hedge fund di Soros hanno condotto una serie di attacchi speculativi contro la lira italiana. Come risultato di questa speculazione, nel novembre 1993 la lira aveva perso il 30% del suo valore, e negli anni successivi ha subito ulteriori deprezzamenti.

Nel disperato tentativo di resistere all’attacco, la Banca d’Italia aveva letteralmente gettato sul mercato dei cambi 48 miliardi di dollari[52]. Il che aveva portato ad una drastica riduzione delle riserve valutarie del Paese. La svalutazione della lira aveva portato ad un forte calo del valore dei beni dello Stato prima della loro privatizzazione. Secondo fonti informate, le speculazioni più aggressive contro la lira erano effettuate dalle banche di Londra, come Goldman Sachs e SG Warburg; quelle stesse che erano invitate dal governo italiano come i consulenti sulle privatizzazioni. A conseguenza di quegli attacchi speculativi, l’Italia era costretta a ritirarsi dal sistema monetario europeo (SME), e il governo adottò un piano per ridurre il deficit di bilancio dello stato, e annunciò l’inizio delle privatizzazioni[53].

Pochi anni dopo, le Procure di Roma e di Napoli hanno indagato le attività di Soros, che era accusato di speculazioni sul mercato azionario e di insider trading, utilizzando informazioni riservate[54].

Nello stesso tempo, la agenzia Moody’s ha declassato il rating dell’Italia in modo assurdo al livello «C». La Moody’s come è ben noto usa la sua valutazione di rischio come arma “politica” a favore degli interessi anglo-americani. Mentre un’altra valutazione di rating prodotta dalla agenzia Standard&Poor’s aveva declassato il debito pubblico dell’Italia, nonostante il fatto che non c’era alcun rischio di inadempienza da parte dello Stato.

Se consideriamo l’operazione “Mani pulite” in sé, questa può sembrare come un’indagine penale di carattere ordinario, anche se è stata la più massiccia e clamorosa nella storia italiana. Nello stesso modo, la massiccia privatizzazione dell’industria italiana può essere considerata come una riforma finanziaria e strutturale, simile a quelle che hanno avuto luogo in quel tempo in molti altri Paesi. Tuttavia, se mettiamo questi due fenomeni nel contesto della situazione socio-politica ed economica dell’Italia nei primi anni 1990, sarà chiaro che il Paese è stato il bersaglio di una vera e propria guerra ibrida in piena regola.

Possiamo osservare i seguenti segni di guerra ibrida:

1) I processi per corruzione e l’avvio contemporaneo delle privatizzazioni erano accompagnati da un robusto attacco al sistema finanziario del Paese da parte di Soros e dei fondi legati alle agenzie di rating degli Stati Uniti.

2) Il Paese era nello stato di costante minaccia terroristica, o cosidetta strategia di operazioni a bassa intensità (guerriglia). Nella primavera dell’anno 1992, diversi omicidi politici di alto profilo sono stati compiuti a Palermo. Sono stati assasinati il parlamentare democristiano Salvo Lima, e i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: questi ultimi due essendo i principali combattenti contro la mafia.

Esattamente un anno dopo, l’Italia cominciò a tremare per una nuova serie dei attacchi terroristici dello stesso tipo condotti da esponenti mafiosi. A Roma, Firenze e Milano esplosero ordigni contro vari obiettivi simbolici, quali via dei Georgofili vicino alla Galleria degli Uffizi a Firenze, la chiesa di San Giorgio in Velebro e San Giovanni in Laterano a Roma, la villa reale a Milano. Nello stesso periodo in Romagna avvenivano diversi attentati della Uno Bianca, e apparivano connessioni con la Falange Armata [55].

Il giornalista Federico Dezzani ha messo in risalto la stretta connessione tra gli atti terroristici, gli attacchi speculativi e gli importanti eventi politici. Tipicamente, questi attacchi avvenivano in vista di elezioni o di sedute decisive del Parlamento o del Governo[56].

3) L’operazione “Mani Pulite” era evidentemente collegata alle attività dei servizi speciali degli Stati Uniti, e nell’operazione “Britannia” aveva partecipato attivamente l’élite finanziaria anglo-americana.

4) Mentre l’operazione “Britannia” era stata condotta in un clima di segretezza, il processo “Mani Pulite” ricevette una copertura mediatica senza precedenti da parte della media mainstream[57].

5) La specificità italiana sta nel fatto che nell’operazione “Mani Pulite” e nelle serie di atti terroristici sono stati coinvolti la mafia siciliana e gruppi terroristici locali. In questo caso, i politici e gli analisti italiani non escludono infiltrazioni degli agenti dei servizi speciali degli Stati Uniti[58].

Il colpo di stato giudiziario in Italia non è stato un caso isolato. Lo stesso scenario si è svolto successivamente nel Brasile. Nell’autunno dell’anno 2016, a seguito dell’impeachment avviato da parte dell’opposizione filo-americana, ha dato le dimissioni la presidente Dilma Rousseff. Il motivo per cui la Roussef subì il voto di sfiducia fu uno scandalo di corruzione chiamato “Carwash”, anche se il coinvolgimento della Roussef non è stato definitivamente provato. Nel luglio 2017, l’ex presidente del Brasile, Lula da Silva, che nel 2018 è apparso anche il principale contendente per le elezioni presidenziali previste per il 2019, è stato condannato a 10 anni di carcere per corruzione. Allo stesso tempo, il tribunale ha respinto le accuse di corruzione portate contro Michel Temer, il presidente ad interim. Nel frattempo, il parlamento del Paese ha adottato con urgenza una legge per permettere le privatizzazioni delle più grandi aziende di proprietà statale.

Come osserva A.Bizin sulla rivista Forbes, «Questa storia possede tutto per una soap opera di successo: la corruzione nelle alte sfere e ambiziosi giovani, frasi offensive e strane morti dei giudici. Tutto questo, sullo sfondo di una crisi politica ed economica che ha colpito il destino dei cittadini comuni»[59].

  1. Le conseguenze della “Primavera araba” alla luce della corruzione

Nel febbraio del 2018, la filiale britannica della Transparency International ha pubblicato un rapporto molto interessante: “La grande spirale. La corruzione e la crescita dell’estremismo violento”. Il preambolo afferma che lo studio mostra come la corruzione rafforza i gruppi estremisti. «La corruzione è l’arma più potente nell’arsenale di estremismo violento. La corruzione rafforza i movimenti estremisti in tre direzioni. In primo luogo, i gruppi estremisti si basano sul malcontento pubblico causato dagli abusi di potere al fine di radicalizzare e di reclutare tra la popolazione, instillando odio tra i gruppi religiosi rivali. In secondo luogo, i legami tra la criminalità organizzata da un lato e funzionari corrotti d’altra parte, facilitano il flusso di fondi e spedizioni di armi illegali. E, infine, la corruzione indebolisce le istituzioni statali che possono e devono controllare le forze estremiste, specialmente quando ricorrono alla violenza»[60].

Il rapporto riassume la “Primavera araba” in termini di rapporto tra corruzione e terrorismo.  In questo caso, la colpa della diffusione strisciante del terrorismo internazionale che risultava dal rovesciamento dei regimi “corrotti” è imputata ai questi stessi regimi. La logica è la seguente: i brutali governanti corrotti alimentano malcontento popolare e, di conseguenza, emergono gruppi terroristici che si sprigionarono subito dopo aver contribuito a distruggere i regimi e gli Stati.

Soprattutto tendenziosa è stata l’analisi della situazione in Libia, che presumibilmente aveva contribuito alla diffusione di gruppi estremisti come eredità lasciata dal regime di Gheddafi. La relazione di Transparency International afferma, «come in altri Paesi della Primavera araba, la corruzione e la repressione politica durante il dominio 42-enne di Gheddafi erano i principali fattori che avevano innescato le proteste di massa e avevano accelerato la caduta del regime… Il sistema politico della Libia ruotava attorno a Gheddafi, che controllava la scena politica combinando la repressione e la distribuzione del reddito derivante dal petrolio. In realtà, si trattava di un regime cleptocratico vantaggioso in primo luogo per Gheddafi, per i membri della sua famiglia e i loro alleati»[61].

Riassumendo, gli autori del rapporto erano costretti ad ammettere che «la corruzione era stata un fattore chiave nel conflitto libico. Tuttavia, coloro che erano saliti al potere dopo la caduta di Gheddafi, non erano in grado di frenare l’abuso dilagante di potere. In un  sondaggio, il 66% degli intervistati ha risposto che la corruzione non era diminuita. Questi sondaggi di opinione, così come i documenti ufficiali, come il Global Competitiveness Report 2013-2015, avevano rilevato non solo la corruzione delle forze dell’ordine, ma anche la mancanza di competenze necessarie per garantire la legge e l’ordine in Libia»[62].

Il rapporto si conclude con un severo avvertimento, prima di tutto ai Paesi che osano contraddire gli interessi geopolitici degli Stati Uniti. «I governi occidentali devono in futuro fondamentalmente ripensare il loro rapporto con personaggi come Gheddafi, Assad e Malakis. Molti leader con cui comunicano i governi occidentali, non sono alleati nella lotta contro il terrorismo. Molti governi occidentali cercano di influenzare o frenare i comportamenti di autocrati corrotti perché sembrano essere un’alternativa all’instabilità. Ma alla fine, i governi corrotti sono coloro che creano le future crisi di sicurezza»[63]. Preoccupa che una tale conclusione non proviene da una qualsiasi ONG o da un centro di analisi privato (think-tank), ma è scritta nella relazione dell’organizzazione internazionale Transparency International, che è stata l’autorità principale nella lotta contro la corruzione e il finanziamento del terrorismo. In questo modo infatti il campo della lotta contro la corruzione si espande in un “cattivo infinito”. Tra le accuse, reali o inventate, di corruzione è ora possibile includere quella di complicità col terrorismo. La logica è la seguente: se le pressioni “soft” non hanno efficacia contro la corruzione e non riescono a eliminare il “dittatore”, il passo successivo sarà di svelare che questo tiranno promuove il terrorismo, e questo servirà agli occhi della comunità internazionale come una valida giustificazione per l’intervento militare.

Il punto di vista opposto ha espresso Kuznetsov: «La ragione principale dell’intervento armato occidentale è stata la diffusa presenza economica e politica della Libia nei conflitti in Africa e le politiche finanziarie indipendenti intraprese da Gheddafi». Kuznetsov fa notare che nel corso degli ultimi due decenni, la Libia era intervenuta nella situazione di diversi paesi africani, sia negli aspetti economici, sia in quelli politici, e aveva raggiunto un notevole successo. Così, per esempio la Libia aveva investito in trenta Paesi africani, secondo stime prudenti, circa 5 miliardi di dollari. Questo aveva causato una grandissima preoccupazione negli Stati Uniti e in Europa (soprattutto in Francia). Grazie alle entrate considerevoli dall’esportazione di petrolio (circa 50 miliardi di dollari all’anno), la Libia aveva acquisito un enorme capitale finanziario, circa 200 miliardi di dollari[64].

Lo studioso canadese P.D.Scott ritiene che la ragione principale che ha spinto la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti a rovesciare Gheddafi sia stato il suo piano di introdurre in Africa una nuova moneta – il dinaro d’oro. Che avrebbe portato a spostare il commercio di petrolio dal dollaro all’euro. A favore di questa ipotesi vi sono i seguenti fatti. In primo luogo, la Banca centrale della Libia aveva concentrato nelle proprie casse 144 tonnellate d’oro e in secondo luogo, le istituzioni finanziarie libiche erano molto attive in tutto il continente africano. Secondo le informazioni di Scott, i 30 miliardi di dollari di beni libici che erano congelati nelle banche degli Stati Uniti, erano destinati a finanziare progetti per il continente africano: l’istituzione della Banca africana per gli investimenti (a Sirte, Libia); l’istituzione del Fondo monetario africano (a Yaoundé, Camerun) con capitale sociale di 42 milioni di dollari, già assegnati dalla Libia e dalla Banca Centrale Africana (ad Abuja, Nigeria)[65]. Grave preoccupazione per la crescente influenza della Libia nel continente africano è stata espressa dagli analisti dell’intelligence americana e nei rapporti della società privata Stratfor (Strategic Forecasting Inc.)[66].

La ricerca dei studiosi russi “La Primavera araba del 2011. Il sistema di monitoraggio dei rischi globali e regionali” diretta da A.Korotaev[67]  ha smentito i miti sulle cause principali della Primavera araba. I suoi risultati dimostrano che la probabile causa della destabilizzazione non furono i fattori che di solito indicano i mass media occidentali, come le dinamiche sfavorevoli di PIL pro capita, la corruzione, la disoccupazione, la povertà, ecc., bensì che:

1) In molti paesi arabi l’economia nel corso degli ultimi trent’anni si era sviluppata molto rapidamente. Nel corso del primo decennio del XXI secolo, il PIL del mondo arabo era cresciuto del 50%. Nello stesso periodo, negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale il PIL era aumentato di circa il 10-12%. In altre parole, i Paesi arabi si sviluppavano cinque volte più velocemente rispetto all’Occidente, grazie a una serie di riforme economiche di successo.

2) Secondo Transparency International, i Paesi del Medio Oriente erano circa allo stesso livello di quasi tutti gli altri Paesi in via di sviluppo e dell’ex-Unione Sovietica: in quasi tutti questi Paesi, secondo Transparency, v’è un alto o molto alto livello di corruzione.

3) I Paesi del Medio Oriente per i quali sono disponibili i dati, mostravano condizioni molto diverse tra loro in termini di povertà, ma in nessuno di essi la povertà superava il 20% della popolazione, a differenza di Paesi come l’India e l’Indonesia, così come in Paesi dell’Asia centrale e dell’Africa sub-sahariana. Ad esempio, nell’Egitto la povertà estrema era quasi completamente eliminata. Tuttavia, in Paesi come l’Egitto e l’Iran, dove la povertà estrema era quasi scomparsa, gli sconvolgimenti politici erano più forti che nell’Algeria, dove l’estrema povertà era un problema ancora molto grave.

4) Il tasso di disoccupazione nel Medio Oriente non poteva essere considerato molto elevato (anche se era un po’ superiore alla media generale). Questo dimostra i grandi successi dei Paesi arabi nel campo dell’occupazione, nonostante la rapida crescita di popolazione. Tuttavia, pur se non era molto elevata (per gli standard globali), i Paesi arabi avevano una disoccupazione giovanile molto alta.

L’anomalia principale identificata dagli autori del rapporto sta nel fatto che nei Paesi colpiti da disordini e dalle rivoluzioni della Primavera araba, l’alto livello di disoccupazione giovanile aveva il carattere specifico che molti di questi paesi nel 2011 si trovavano nel punto più alto della crescita della popolazione giovanile. In tali circostanze i giovani erano più inclini al radicalismo; avevano spesso difficoltà con l’occupazione[68].

A conseguenza della Primavera araba, molti Paesi della regione sono regrediti di molti decenni nello sviluppo politico e socio-economico. Secondo le stime dello Stategic Forum arabo, il danno subito dall’Africa del Nord e dal Medio Oriente  negli anni 2010-2014 a seguito degli eventi della Primavera araba, è stato circa 834 miliardi di dollari. La maggior parte di queste perdite si riscontrano nelle infrastrutture distrutte e nei danni diretti al PIL (461 miliardi e 289 miliardi di dollari rispettivamente). Come risultato di violenze, ostilità e attacchi terroristici nella regione sono stati uccisi o feriti 1,34 milioni di persone; circa 14,4 milioni di persone sono diventate profughi[69].

Come notato da Forbes, «Dovunque un governo era rovesciato, lo Stato scompariva o era indebolito… La decadenza del tradizionale potere statale ha portato al rafforzamento del potere di clan, di gruppi etnici o religiosi che sono entrati in conflitto con i governi»[70]. Come conseguenza dell’ondata di violenza che aveva colpito alcuni Paesi più stabili del Nord Africa e del Medio Oriente si è creato il grande arco di instabilità, che ora minaccia la sicurezza non solo degli Stati colpiti, ma anche di tutto il Medio Oriente e dell’Europa, che è invasa da un’ondata di profughi e da massici attacchi terroristici.

A seguito della distruzione dei regimi “corrotti”, sono scomparsi interi Paesi, ed è peggiorata la condizione sociale delle popolazioni. Secondo Forbes, «se guardiamo all’indice di percezione della corruzione di Transparency International, la Tunisia è scesa dalla posizione 39 che occupava nel 2011, alla posizione 73 e l’Egitto ha perso una trentina di punti»[71].

In conclusione, si deve notare che il cambiamento del paradigma della politica estera degli Stati Uniti, dall’intervento militare diretto ai metodi ibridi, porterà ad un uso crescente di scenari anticorruzione, che nonostante il basso costo sono molto efficaci. Ciò è dovuto al fatto che la corruzione come tale non si introduce dall’esterno, ma esiste già all’interno del corpo statale. Il compito dell’avversario che intende destabilizzare un Paese è quindi quello di iniziare a lanciare campagne tramite i social network per mostrare la corruzione alla pubblica opinione, e quindi provocare disordini, stimolare l’opposizione al governo, generare movimenti anti-corruzione e avviare processi legali di natura politica e destabilizzante, ecc.

*Yugay Tatiana, PhD, Ricercatrice, yugpole@gmail.com.

 

Note

[1]           Yugay T.A. Le  tecnologie informatiche e finanziarie della guerra ibrida // Armamento e economia – 2016 – №4 (37). Pp. 113-127.

[2]          Patterson P.R. Changes in latitudes, changes in attitudes: narrating a regime change. Monterey, California: Naval Postgraduate School. 03. 2015. URL: http://hdl.handle.net/10945/45237

[3]          Downes A.B., Monten J. Freedom by Force: Foreign-Imposed Regime Change and Democratization. URL:  https://gwucpw.files.wordpress.com/2012/05/freedombyforce_gwu_cpworkshop.pdf

[4]            Bush G.W. The National Security Strategy of the United States of America. Washington: The White House, 2002.

[5]            Masters D. Rival Military Intervention: Prospects for Regime Change and Democracy in Target States. Wilmington:  University of North Carolina. 2014. P.17.

[6]            Chin J.J.  Military Coups, Regime Change, and Democratization. Princeton University. 15 October, 2015.  P. 3.  URL:https://scholar.princeton.edu/sites/default/files/jchin/files/military_coups_regime_change and democratization 2015.09.15.pdf.

[7]          Bogaards M. Democratization: Measures of Regime Change in Comparative Perspective. Bremen. Jacobs  University 2008. P.2. URL: http://www.jacobs-university.de/directory/02727.

[8]          URL: https://en.oxforddictionaries.com/definition/regime_change.

[9]          http://www.ned.org/apply-for-grant/ru/.

[10]  TASS-DOSSIER. URL:http://tass.ru/info/2149846

[11]        Д.Дуглас-Боуэрс. Неправительственные организации: имперские миссионеры. 17.08.2015 URL:  https://www.geopolitica.ru/article/nepravitelstvennye-organizacii-imperskie-missionery.

[12]          Национальный фонд демократии. URL: http://ruxpert.ru.

[13]        Engdahl W. National Endowment for Democracy is Now Officially “Undesirable” in Russia. The New Eastern   Outlook. 03.08.2015. URL: https://journal-neo.org/2015/08/03/national-endowment-for-democracy-is-now-officially- undesirable-in-russia/.

[14]        La disposizione del Ministero di Giustizia della Russia. № 1076-r URL: http://minjust.ru/ru/node/208076 .

[15]          URL: https://ria.ru/world/20150729/1153132421.html.

[16]        URL: http://www.securitylab.ru/news/487635.php .

[17]        Katzman K. Iraq: U.S. Efforts to Change the Regime. Report for Congress. Congressional Research Service. The Library of Congress. October 3, 2002. P.2. URL: http://www.casi.org.uk/info/usdocs/crs/020322rl31339.pdf.

[18]        ILA, HR 4655, PL Pp. 105-338.

[19]        Katzman K. Iraq … P.9.

[20]          Documento finale del Vertice mondiale del 2005: Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite A/RES/60/1. 2005. 24 ottobre. 2005.

[21]          Implementing the responsibility to protect. Report of the Secretary-General. 12 January 2009. Sixty- third session. URL: http://responsibilitytoprotect.org/implementing%20the%20rtop.pdf.

[22]           Janik R. Exposé – Forcible Regime Change in International Law and Policy. Universität Wien. P.2. URL: http://backend.univie.ac.at/fileadmin/user_upload/s_rechtswissenschaft/Doktoratsstudium_PhD/Expose1 /Voelkerrecht/Regime_Change_Humanitarian_Intervention_and_the_Responsibility_to_Protect_.pdf.

[23]        Holmes K.R. The Weakness of the Responsibility to Protect as an International Norm. Jan 7th, 2014. URL:  http://www.heritage.org/defense/commentary/the-weakness-the-responsibility-protect-international-norm.

[24]        Murray R.W. R2P: More Harm than Good? URL: http://nationalinterest.org/commentary/r2p-more- harm-good-8970.

[25]        Ibid.

[26]        URL: http://www.globalr2p.org/about_us.

[27]        URL:  http://www.un.org/en/genocideprevention/about-responsibility-to-protect.html.

[28]        Hamid S. Why We Have a Responsibility to Protect Syria. Jan 26, 2012. URL: https://www.theatlantic.com/  international/  archive/2012/01/why-we-have-a-responsibility-to-protect-syria/251908/.

[29]        Ibid.

[30]  Yugay T.A. Le tecnologie…

[31]        Atkins M.D. Regime Change the Good Old Fashioned Way: US Support to Insurgencies. Newport: Naval War College. 2008. С.1. URL: http://www.dtic.mil/dtic/tr/fulltext/u2/a484259.pdf.

[32]          Schindler J.R. The Coming Age of Special War. September 20, 2013. https://20committee.com/2013/09/20/the- coming-age-of-special-war/.

[33]        Beyerle S.  Curtailing Corruption: People Power for Accountability and Justice. London: Lynne Rienner Publishers. 2014. P.25.

[34]        Ackerman P., Beyerle S. Lessons from Civil Resistance for the Battle against Financial Corruption // Diogenes. Vol. 61. Issue 3-4. P.17.

[35]        Beyerle S.  Curtailing Corruption… P.29, 31.

[36]        “Strategy 2015”. Transparency International. URL: www.transparency.org

[37]        In particolare, il Partito Socialista Italiano (PSI), di cui era il Segretario permanente B.Craxi, era inizialmente

finanziato da contributi di imprese di proprietà statale, ma poi questa pratica si era diffusa alle grandi imprese

private, le sedi dei quali erano a Milano.

[38]        Op. presso:  http://www.conflittiestrategie.it/le-mani-impunite-dei-mandanti-e-beneficiari-di-mani-pulite.

[39]        Vannucci A. The Controversial Legacy of ‘Mani Pulite’: A Critical Analysis of Italian Corruption and Anti-Corruption Policies // Bulletin of Italian Politics. – 2009. – Vol. 1, № 2. С. 258.

[40]        European Commission. Annex Italy to the EU Anti-Corruption Report. EC: Brussels. 2014. P.3-4, 12-14.

[41]        European Commission. Special Eurobarometer 397. Corruption Report.  EC: Brussels. February 2014. P.8.

[42]        Craxi B. Colloquio con Augusto Minzolini, il 18 settembre 1992. URL: https://knutwicksell.wordpress.com/2010/01/14/il-profetico-bettino/  .

[43]        Molinari M. Così intervenni per spezzare il legame Tra Usa e Mani pulite. La Stampa, 29 agosto 2012.

[44]        Molinari M. Di Pietro mi preannunciòl’inchiesta su Craxi e la Dc 30/08/2012. La Stampa. 30 agosto 2012.

[45]        Cazzullo A. Cossiga compie 80 anni: Moro? Corriere della sera. 08 luglio 2008.

[46]    D’Esposito F. «L’Italia un paese di marionette». Pomicino e la manina americana. Corriere della Sera. 19 Gennaio 2010.

[47]  Ibid.

[48]        Panara M. Italia Spa, la saga delle privatizzazione. La Repubblica. 3 ottobre 2013.

[49]        Laurenzi L. Quella reggia sul mare romantica e spartana … La Repubblica. 03 giugno 1992.

[50]        La strategia anglo-americana dietro le privatizzazioni in Italia: il saccheggio di un’economia nazionale. Documento         diffuso dall’EIR e dal Movimento Solidarietà. 14 gennaio 1993 URL: https://www.movisol.org/draghi3.htm.

[51]        Randazzo A. Come è stata svenduta l’Italia. 12 marzo 2007. URL: https://www.disinformazione.it/svendita_italia2.htm.

[52]        Ibid.

[53]        Ibid.

[54]        Ibid.

[55]        Rosso U. Mancino: ‘È sempre lo stesso esplosivo’.  La Repubblica. 29 luglio 1993.

[56]        Dezzani F. Alle radici dell’infamante Seconda Repubblica: il biennio 1992-1993 (parte I). 2 marzo 2017.   URL:http://federicodezzani.altervista.org/alle-radici-dellinfamante-seconda-repubblica-il-biennio1992-1993-parte-i/ .

[57]        L’Italia, nel ‘92-‘94, fu teatro di un’autentica rivoluzione-eversione che eliminò dalla scena per via mediatico-giudiziaria ben 5 partiti politici “storici”, salvando però il Pci. Lo strumento di questa rivoluzione-eversione fu la “sentenza anticipata”: quando un avviso di garanzia, urlato da giornali e televisioni, colpiva i dirigenti di quei

partiti essi erano già condannati agli occhi dell’opinione pubblica. Il circo mediatico-giudiziario composto da due

pool, quello dei pm di Milano e dal pool dei direttori, dei redattori capo e dei cronisti giudiziari di quattro giornali (Il Corriere della Sera, La Stampa, La Repubblica, l’Unità) mirava contro il Caf (Craxi Andreotti Fanfani), cioè concentrò i suoi colpi in primis contro il Psi di Craxi, poi contro il centro-destra della Dc, quindi, di rimbalzo, contro il Psdi, il Pri, il Pli. Colpì anche molti quadri intermedi del Pci-Pds, molte cooperative rosse, ma salvò il gruppo dirigente del Pci-Pds e quello della sinistra Dc”. Cicchitto F. Tangentopoli, cosi i pm salvarono il Pci URL: http://ildubbio.news/ildubbio/2017/03/01/tangentopoli-cosi-pm-salvarono-pci/.

[58]        Pipitone G. Trattativa, l’ex capo dei Servizi Fulci: “la Falange chiamava dalle sedi Sismi, alcuni 007 usavano  esplosivi. Il Fatto Quotidiano. 25 giugno 2015.

[59]        URL:  http://www.forbes.ru/finansy-i-investicii/337813-brazilskiy-skandal-kakie-vyvody-mozhet-  sdelat-

mezhdunarodnyy-investor.

[60]        The Big Spin. Corruption and the growth of violent extremism. Transparency International UK. February 2017. P.7.  URL: http://ti-defence.org/wp-content/uploads/2017/02/The_Big_Spin_Web-1.pdf.

[61]        Ibid. P. 19-20.

[62]        Ibid.

[63]        Ibid.

[64]        Кузнецов А. Роль НАТО в событиях Арабской весны 2011- 2013. URL: https://www.geopolitica.ru/article/rol-nato-v-sobytiyah-arabskoy-vesny-2011-2013.

[65]        Scott P.D. The Libyan War, American Power and the Decline of the Petrodollar // The Asia-Pacific Journal // Japan Focus. – 2011. – Volume 9. Issue 18. №2. P. 7. URL: http://apjjf.org/-Peter-Dale-Scott/3522/article.pdf.

[66]        STRATFOR: collected files and reports on Libya. 150 p. URL:       http://openanthropology.org/libya/STRATFORfiles.pdf.

[67]        Коротаев А. Арабская весна.  Стенограмма  лекции 10 сентября 2013 г. URL: http://polit.ru/article/2013/11/10/arabskaya_vesna/.

[68]        Арабская весна 2011 года. Системный мониторинг глобальных и региональных рисков / Отв. ред. А.В.

Коротаев, Ю. В. Зинькина, А. С. Ходунов. М.: Либроком/URSS, 2012. С. 28–76.

[69]        URL: https://ria.ru/world/20151216/1343046657.html.

[70]          Меламедов Г. “Арабская весна”: как реформы взорвали старый мир URL:

             http://www.forbes.ru/mneniya-column/mir/313375-arabskaya-vesna-kak-reformy-vzorvali-staryi-mir.

[71]        Ibid.

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