C’è da mettersi le mani nei capelli. A voler tentare di raccogliere solo alcuni esempi di corruzione che sono emersi sul proscenio della stampa nel mondo nel periodo recente (la prima metà del 2018), si scopre che praticamente ogni giorno, praticamente in ogni parte del mondo se ne trovano.

Alcuni esempi spulciando qua e là in Rete.

Domenica 9 settembre 2018, nel Corno d’Africa si stanno concretando, auspice la Cina i cui interessi economici nella regione sono sempre maggiori, accordi di stabilizzazione tra Somalia, Etiopia, Eritrea e Gibuti. L’Onu ha sanzioni economiche in corso verso l’Eritrea, accusata di sostenere guerriglieri islamisti in Somalia, nell’ambito del profilarsi degli accordi si prevede che le sanzioni saranno sollevate. Ma ecco sorgere un problema: in Eritrea vige un regime personale, Isaias Afewerki dal 1993 è ininterrottamente al potere. E viene pubblicato un libro dell’ex ministro delle Finanze eritreo Berhane Abhere Kidane, “Eritrea, il mio Paese”. L’autore accusa il perpetuo presidente eritreo di tradimento e corruzione. Ne richiede le dimissioni paventando altrimenti il rischio di una guerra civile.

Si può catalogare l’atto di accusa di Kidane come una contromossa favorita da chi vuol impedire l’estensione dell’influsso cinese in Africa. Ma questo non toglie che vi siano fatti che parlano di un regime corrotto.

Lo stesso giorno, nove di settembre 2018, compare la notizia che il premier socialista spagnolo Pedro Sanchez — da poco succeduto al governo del Partido Popular di Mariano Rajoy (vedi sotto) caduto sotto il peso di scandali di corruzione — riattiva la fornitura di armi (400 bombe di precisione per 9,2 milioni di euro) all’Arabia Saudita (l’accordo era stato sospeso due giorni prima) per “salvare” la commessa di 1,8 miliardi di euro per la fornitura di cinque corvette spagnole ai sauditi. Il problema è che tutte queste armi saranno usate nella guerra per procura in corso in Yemen, tra Sauditi e Iraniani. Si potrebbe dire che ci troviamo di fronte a un caso di Realpolitik. Ma siamo sicuri che fornire armi a un paese in guerra – una guerra indiretta e non dichiarata – non abbia alcunché a che vedere con la corruzione?

In America Latina dal 2014 vari paesi sono scossi da quella che si chiama “Operazion Lava Jato”, una trama corruttiva venuta alla luce attorno all’ex presidente brasiliano Luiz Ignácio Lula da Silva, ma che si estende a diversi altri paesi. Il due settembre 2018 è stata pubblicata la notizia che il tribunale elettorale ha escluso Lula da Silva dalle prossime elezioni brasiliane; questi, divenuto presidente nel 2002 e rieletto nel 2006 (fino al 2010) condusse una politica economica di notevole importanza e grande successo per risollevare le classi più povere del paese. Ma qualche anno dopo aver lasciato il potere è stato accusato di rapporti illeciti con Petrobras per trarne vantaggi economici personali. In Perù, Ecuador, Guatemala, Argentina sono da tempo in corso simili scandali. Che almeno in parte possono essere stati pompati ad arte: ma questo avrebbe potuto avvenire se non vi fosse corruzione alla base?

In Italia, parliamo sempre del 9 settembre 2018: editoriale di Avvenire a firma di Leonardo Becchetti. “Tentazione Mugabe” ovvero di trovarsi invischiati in una situazione simile a quella riferita allo Zimbabwe, di accusare forze esterne mentre il paese stenta per problemi propri: “Si parla della ‘battaglia’ per chiedere all’Europa fondi per nuovi investimenti quando ci sono 150 miliardi già stanziati bloccati per ritardi procedurali e alcune nostre Regioni spendono meno del 5% dei fondi strutturali – scrive Becchetti — I grandi mali d’Italia sono le lentezze burocratiche, i tempi della giustizia civile, la corruzione, l’evasione e l’elusione fiscale… La macchina è ingolfata perché la qualità della pubblica amministrazione è molto peggiorata e laddove non ci sono funzionari validi le difficoltà si fanno enormi.”

Il giorno prima, 8 settembre 2018 sulle pagine dei giornali erano emersi scandali a Lecce: nove ordinanze di misura cautelare emesse insieme con 5 interdizioni e 34 avvisi di garanzia ad amministratori e impiegati pubblici per associazione per delinquere, peculato, corruzione (anche elettorale tramite voto di scambio), abuso d’ufficio, ecc… Le indagini erano cominciate nel 2013. Tutto molto classico; tra le altre cose, una donna che si sarebbe concessa a un politico per ottenere un appartamento di Edilizia residenziale pubblica. Sono notizie che passano sempre più inosservate, più tempo passa, più la corruzione è data per scontata.

In Cina nel 2012 Xi Jinping fu eletto segretario generale del PCC anche per condurre una lotta alla corruzione. Sono migliaia i quadri di partito, funzionari e imprenditori arrestati da allora. L’otto di maggio 2018 si è saputo che Sun Zhengcai, già membro del Politburo (la leadership del Partito comunista cinese) e personaggio di tale rilevanza da aver conteso a Xi la leadership del paese, è stato condannato per aver intascato 26 milioni di dollari in bustarelle. Anche qui: campagna ordita ad arte o corruzione reale? Certo la Cina non brilla per trasparenza, ma è da credere che la campagna anticorruzione sia solo strumento di lotta di potere?

Dell’inizio di luglio 2018 è la notizia della sentenza emessa da un tribunale del Pakistan, di dieci anni di carcere e una multa di 8 milioni di dollari contro l’ex primo ministro Nawaz Sharif per esportazione illecita di capitali e per il possesso di quattro appartamenti a Londra. La sentenza è stata emessa poco più di due settimane prima delle elezioni: fa parte dunque della lotta politica in corso? Chissà. Ma il fatto oggetto di condanna è vero o no?

Il 10 maggio 2018 il Sunday Times riferisce che a Città del Capo, in Sudafrica, Arno Lamoer, responsabile della polizia, è stato condannato per aver accettato denari da un imprenditore. Lamoer era stato arrestato nel 2015 con l’accusa di corruzione e riciclaggio.

Alla fine di aprile 2018 la Corte nazionale di Madrid ha chiuso un lungo processo contro diversi esponenti del Partido Popular allora al governo, per una vasta trama di corruzione chiamata “Gurtel” comminando un totale di 351 anni di carcere a 29 esponenti del partito. Denari in cambio di favori: la solita solfa. Il sistema di finanziamento dei partiti che poi in realtà diviene anche o forse soprattutto sistema di finanziamento di pochi esponenti dei partiti.

Di contro ai paesi del Sud Europa visti generalmente come corrotti, un tempo si ergeva splendente l’immagine della Germania: prona al lavoro, dedita al valore della cosa pubblica, incorrotta. Non è più così da tempo. Già il 16 marzo 2003 il quotidiano Die Welt, sosteneva che il mito della correttezza negli affari pubblici tedeschi fosse crollato: allora gli uffici della Deutsche Bahn (le ferrovie nazionali) in tutto il paese furono perquisiti dietro ordine del procuratore per contatti illeciti con lo stato di Brandenburg. Pochi anni dopo, nel 2006, Siemens, una delle maggiori società tedesche, è stata oggetto di un grosso scandalo attinente alle bustarelle erogate in diversi paesi al fine di assicurarsi contratti. I processi furono chiusi nel 2008 con multe e compensazioni per un totale di 1,8 miliardi di dollari. Più recentemente Deutsche Bank (DB), la più importante banca tedesca, come denunciato da Mario Lettieri e Paolo Raimondi su Italia Oggi il 18 giugno 2018 è stata trasformata nel corso degli anni Novanta “in una specie di hedge fund speculativo di tipo anglosassone. A tutti i costi bisognava ottenere un rendimento del 25% sul capitale, «accettando di correre grossi rischi finanziari ed etici»”. Così, se fino a tutti gli anni Ottanta (prima della caduta del Muro) DB era impegnata a sostenere progetti industriali, dopo si è dedicata alla speculazione pura: a cercare di fare denaro col denaro, senza compiere investimenti nell’economia reale. Che è l’essenza stessa della corruzione. A conseguenza di questo, per DB “il 2017 ha visto perdite nel settore dei derivati pari a 124,1 miliardi di euro, mentre il valore nozionale totale dei derivati è salito da 42,9 a 48,3 trilioni di euro!”. Come riportano Lettieri e Raimondi, le autorità finanziarie americane hanno probabilmente cercato di approfittare della situazione “come se si volessero addebitare alla Db tutte le malefatte finanziarie perpetrate negli ultimi anni da tutte le banche «too big to fail», troppo grosse per fallire, in primis dalla Goldman Sachs, dalla JP Morgan, ecc.”.
Tutte grosse banche americane, perché certo gli USA non sono esenti da corruzione. Del resto il loro attuale presidente si è sempre vantato di essere un grande uomo di affari, avendo fatto affari in settori non precisamente produttivi ma anzi assai prossimi all’economia grigia, quali il gioco d’azzardo, la speculazione immobiliare, i concorsi di bellezza. E, come riferisce Bloomberg il 16 agosto 2018, Trump “si è rifiutato di rendere pubbliche le sue dichiarazioni fiscali, come ogni presidente ha fatto dal tempo di Gerald Ford”. Inoltre non ha messo i suoi capitali in un “blind trust”, ha usato la sua posizione per promuovere gli affari del suo nuovo hotel di Washington DC e ha introdotto nell’amministrazione della Casa Bianca sua figlia Ivanka e il di lei marito Jared Sushner. Alla faccia del nepotismo. Sono solo alcuni esempi di attività che manifestano corruzione ai massimi livelli degli Stati Uniti.

Ecco dunque quanto si trova sulla stampa tutti i giorni. Se oggi qualcuno agitasse con convinto vigore il motto “corrotti di tutto il mondo, unitevi!” probabilmente in breve metterebbe assieme la più poderosa task force mai vista nel corso della storia.

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